Dice la signora Liliana: ma non abbiamo più notizie della Pediatria…
Eccovi serviti con la cronaca di questa giornata.
Entro in reparto alle 7.30; sembra presto, ma oggi dovrò tenere un corso di aggiornamento e non potrò seguire il lavoro di routine sino a metà pomeriggio.
Da alcuni giorni sono stato costretto a spegnere il cellulare “pubblico” che sembra diventato quella del Barbiere di Siviglia.
La dottoressa giovane è a Varese; il giovane di studio giace nel suo letto di dolore afflitto da una faringite dolorosissima.
La dottoressa sicula è già in reparto; sorride, beata lei, e mi confida che non ha dormito per tutta la notte, comunque è pressoché da sola e ha già quasi finito il giro, interrotto da 2-3 visite di pronto soccorso.
Beviamo il caffè poi scendo all’aula dei congressi dribblando con poco successo la caposala e la pila di carte che dovrei firmare ogni mattina.
Al sotterraneo è già arrivata Anita, la giovane infermiera che mi affiancherà nel corso di aggiornamento.
Ci sono anche altri figuri amministrativi che mi presentano carte da firmare e controfirmare; il microfono non funziona; le batterie sembrano scariche e chiamo l’elettricista; invece era solo la rotella del volume chiusa alla consolle; grazie e io come facevo a saperlo? Comunque il proiettore funziona e miracolosamente non mi hanno cancellato le slides durante la notte.
Finisco la prima relazione e salgo in reparto a vedere se hanno bisogno di me: naturalmente e fortunatamente no.
Ridiscendo e iniziamo le esercitazioni pratiche; il cellulare, quello privato, è scarico e devo lasciarlo in reparto così non mi trovano più; è un illusione: compare l’infermiera del Pronto Soccorso con il mio cercapersone; ha il numero 57.
Nei ritagli di tempo cerco di parlare con il rianimatore per un problema della prossima settimana; il suo telefono non funziona e quando finalmente risponde si inkazza; cosa posso fare se ha un cordless scarico?
Finalmente arriva la pausa pranzo; decido per un panino con la capo-ostetrica che partecipa al corso d’aggiornamento; salgo in reperto a cambiarmi e mi bloccano; la capo-ostetrica va a mangiare con altre due infermiere e a me non resta che la mensa; c’è pasta ai quattro formaggi; orrore per la mia dieta; sto diventando una mongolfiera; mi accontento di un po’ di riso in bianco, due arance e un mandarino.
Torno a concludere il corso d’aggiornamento poi di corsa in reparto che alle 15 iniziano le ecografie.
Finisco giusto alle 18 per fare una visita allergologica che aspetta dalle 16; d’altra parte Marco, giacendo sempre nel suo letto di dolore, non ha potuto eseguirla.
Alle 17.30 arriva la reperibile mentre in sala parto si apprestano a concludere un’induzione perigliosa.
Ora sono solo le 20. Alle 20.30 c’è la cena per festeggiare un collega che diventa primario in un ospedale vicino; poveretto! Non sa cosa lo aspetta.
Spero di riuscire a leggere almeno qualche pagina dell’ultimo libro che ho iniziato, ma forse crollerò prima.
Immagini catturate con lo scanner, con la fotocamera, con la sonda dell'ecografo, con il pensiero. Immagini che quasi sempre sono frutto della casualità e dell'intuizione.
06 maggio 2009
03 maggio 2009
La Dottora dei Pacchi
Molti dei 15 lettori si sono lamentati che il blog non venga aggiornato.
Sarà vero ma, tornato da un viaggetto di due giorni nel Vallese, ho trovato solo un messaggio della Dottora dei Pacchi.
Non vuol dire nulla; non sono in cerca di messaggi di conferma, ci mancherebbe. Forse però non ho mai parlato di Lei.
Dopo due anni di sterile fatica, cercando di insegnare come funziona un reparto a quattro successivi assistenti, di tre dei quali è meglio dimenticare, era arrivata Lei.
La Dottora mi aveva affascinato per il curriculum: invece di enfatizzare sciocchezze, come alcuni predecessori, aveva messo solo l’essenziale.
Fu amore a prima vista.
Giunse sulle rive del lago dopo una delle poche nevicate dell’inverno lariano e ne rimase perplessa, ma accettò comunque di lavorare con me.
Ogni mattina arrivava di pessimo umore. Al mio sorriso mattutino e contagioso (ho ancora l’entusiasmo del dopo laurea, dopo 32 anni) rispondeva con un sorriso forzato che resisteva fino al primo caffè, per aprirsi poi in una risata.
Risata che assumeva riflessi cangianti a seconda di quanto passava il convento.
E’ stata l’assistente che ha dato una sterzata al reparto.
Con Lei l’organizzazione è migliorata e il suo “controgiro” è diventata la costante con cui scandire la fine di ogni mattino.
Niente pranzo come tutti i cristiani, solo uno yoghurt, però mangiato in mensa, assieme ai comuni mortali.
Ogni settimana riceveva dalla Sicilia lo “scatolo”, poi evoluto nel “pacco” di cui allo pseudonimo.
Dallo “scatolo” estraeva ogni bendiddìo che mamma e papà spedivano da Spadafora.
Bendiddìo che Lei divideva con tutti e con me in particolare.
Poi, come da accordi, da programmi e da profezìa se n’è andata lasciando nella Pediatria di Gravedona un vuoto da colmare.
Il Peppino non aveva ancora un barca, ma Lei non sarebbe stata un marinaio di prua, avrebbe voluto il timone senza mai confessarlo, ma non per ambizione, sinceramente per non affaticare il suo primario.
Grazie Giusy! Mi manca anche il tuo sorriso storto, ma sincero, ogni mattina.
Sarà vero ma, tornato da un viaggetto di due giorni nel Vallese, ho trovato solo un messaggio della Dottora dei Pacchi.
Non vuol dire nulla; non sono in cerca di messaggi di conferma, ci mancherebbe. Forse però non ho mai parlato di Lei.
Dopo due anni di sterile fatica, cercando di insegnare come funziona un reparto a quattro successivi assistenti, di tre dei quali è meglio dimenticare, era arrivata Lei.
La Dottora mi aveva affascinato per il curriculum: invece di enfatizzare sciocchezze, come alcuni predecessori, aveva messo solo l’essenziale.
Fu amore a prima vista.
Giunse sulle rive del lago dopo una delle poche nevicate dell’inverno lariano e ne rimase perplessa, ma accettò comunque di lavorare con me.
Ogni mattina arrivava di pessimo umore. Al mio sorriso mattutino e contagioso (ho ancora l’entusiasmo del dopo laurea, dopo 32 anni) rispondeva con un sorriso forzato che resisteva fino al primo caffè, per aprirsi poi in una risata.
Risata che assumeva riflessi cangianti a seconda di quanto passava il convento.
E’ stata l’assistente che ha dato una sterzata al reparto.
Con Lei l’organizzazione è migliorata e il suo “controgiro” è diventata la costante con cui scandire la fine di ogni mattino.
Niente pranzo come tutti i cristiani, solo uno yoghurt, però mangiato in mensa, assieme ai comuni mortali.
Ogni settimana riceveva dalla Sicilia lo “scatolo”, poi evoluto nel “pacco” di cui allo pseudonimo.
Dallo “scatolo” estraeva ogni bendiddìo che mamma e papà spedivano da Spadafora.
Bendiddìo che Lei divideva con tutti e con me in particolare.
Poi, come da accordi, da programmi e da profezìa se n’è andata lasciando nella Pediatria di Gravedona un vuoto da colmare.
Il Peppino non aveva ancora un barca, ma Lei non sarebbe stata un marinaio di prua, avrebbe voluto il timone senza mai confessarlo, ma non per ambizione, sinceramente per non affaticare il suo primario.
Grazie Giusy! Mi manca anche il tuo sorriso storto, ma sincero, ogni mattina.
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