Dalla rivista "Alpes", gennaio 2000
Questo
incidente ferroviario è avvenuto nel 1960; lo ricordo bene; ero un
bambino. Fra i viaggiatori di quel treno c’erano due o tre persone
che conoscevo, che incontravo per la strada e che mi salutavano.
L’evento per la prima volta entrava nella mia
vita. Non come ora, che la televisione, se glielo permettiamo, ci
porta in ogni casa ogni giorno la guerra, la violenza, il sesso e la
morte.
A
casa mia la televisione non era ancora arrivata. Si leggeva il
Corriere e si ascoltava Radiosera, in silenzio perché il papà
voleva ascoltare e a noi ragazzi veniva da ridere proprio in quei
pochi minuti.
Allora
le immagini te le creavi nella mente e vedevi il locomotore marrone
accartocciato, le vetture rovesciate, i morti pallidi e immobili;
immaginavi il suono delle sirene ed erano le sirene dei pompieri di
Morbegno moltiplicate tante volte.
Poi
il giorno dopo arrivavano le immagini vere sul Corriere della Sera,
ma sfumate, scure, sfocate, censurate. Le fotografie dei cadaveri
erano riservate a morti lontani e irriconoscibili: allora si moriva
in Algeria e in Congo Belga.
Le
cronache
dell’incidente,
rilette
a
distanza
di
quarant’anni
sono
quasi
pittoresche
e
molto
interessanti
sul
piano
sociologico,
ma
povere
di
notizie
e
prive
di
particolari
tecnici
precisi.
Ho
avuto sotto mano alcuni numeri de “Il Cittadino”, quotidiano
cattolico di Monza.
Nella retorica del tempo vengono menzionate tutte le
autorità che si sono precipitate sul luogo del disastro; quelle
dimenticate il primo giorno vengono ricordate fortunatamente il
giorno dopo; è il caso, ad esempio, del Corpo dei Vigili Urbani,
che il 7 gennaio era stato dimenticato, ed è comparso il giorno 8 in
terza pagina.
I
funerali vengono descritti con dovizia di particolari, e le
fotografie si soffermano ancora una volta sulle Autorità presenti.
Oggi
si cercherebbe sin dal primo minuto un responsabile oppure, per
guadagnare tempo e tiratura, almeno un capro espiatorio da trovare
anche con scelta randomizzata, e tanto peggio per lui, la sua
reputazione, la sua famiglia, i suoi affetti.
Che
dietro questa catastrofe ci fosse errore umano, negligenza o
imperizia, balza agli occhi smaliziati di chi legge oggi. Allora
invece no.
Il
primo macchinista, che ancora si chiamava “Maestro”, come ai
tempi della trazione a vapore, morì nell’incidente. L’assistente
rimase ferito lievemente.
Pare
che gli accordi prima della partenza fossero che il Maestro avrebbe
condotto il treno sino a Lecco, mentre l’assistente avrebbe preso
i comandi dalla città lariana fino a Milano.
Cosa
avvenne nella cabina di guida del locomotore 626.215? Forse non lo
sapremo mai. L’assistente macchinista sostenne che alla guida del
treno c’era il Maestro. Il vecchio macchinista però venne trovato
schiacciato fra i rottami nella parte destra della cabina, che rimase
distrutta nell’incidente. Ma sulle locomotive del tipo 626 a destra
non ci sono né i comandi del freno, né quelli del reostato. Vicino
ai comandi, venne trovato l’assistente.
Il
capotreno e alcuni viaggiatori hanno testimoniato che i petardi
regolamentari esplosero e l’inchiesta dimostrò che i segnali erano
attivi, ma nessuno ricorda la scarica d’aria compressa che annuncia
l’attivazione del freno.
Forse
il vecchio macchinista si era appisolato, passando dal sonno alla
morte e l’assistente si perse nella nebbia mentre tentava di
recuperare il ritardo.
Alla
fine di numerosi processi, l’ultimo dei quali nel 1967 tutti
vennero assolti, in secondo o terzo grado, perchè eravamo già in
Italia, anche nel 1960.
4 commenti:
Sempre più complimenti, fai vivere quello che scrivi
Grazie Rara13, ma ci conosciamo?
Qualche volta ci incrociamo
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