26 luglio 2017

Il vecchio e gli extracomunitari



Ore quattro del mattino di un sabato di luglio sul Lago di Como.
Il vecchio sentì il cellulare che pigolava. L’aveva lasciato nella tasca dei pantaloni, ma quasi trent’anni di turni di notte in quattro ospedali l’avevano allenato a percepire a colpo sicuro le rogne in arrivo.
Ora di turni ne faceva pochi, ma a volte si dovevano tappare i buchi creati dalle maternità, dalle aspettative e dalle ferie delle colleghe più giovani.
Si alzò dal letto senza accendere la luce con gesti quasi sicuri per l’età e recuperò l’iphone pigolante.
Era il medico del pronto soccorso che voleva inviare un “neonato di sei mesi” alla sua valutazione.
Era arrivato in ambulanza, prelevato da una stanza d’albergo congelata dall’aria condizionata a palla; i genitori venivano dai sobborghi di Londra: extracomunitari a pieno titolo, almeno dopo la brexit, al pari di Svizzeri e Turchi.
Il lattante, che a onor del vero era stato neonato sei mesi prima, respirava piuttosto male.
Una bella bronchite asmatica, o una bronchiolite importante, ma l’ossigeno arrivava bene.
Il vecchio era preoccupato più di capire che di intendersi con questa coppia di giovani inglesi, ma se la cavò.
Dopo un’occhiata agli esami, tutto sommato ragionevoli, era arrivato alla conclusione che si trattasse di una broncopolmonite all’esordio e non lesinò antibiotici e boncodilatatori.
Dopo qualche ora il piccolo era stabilizzato, respirava benino e cercava il seno materno.
I genitori iniziarono una danza della pioggia con il campanello per chiamare l’infermiera.
Erano preoccupati perché non c’era il sapone, ma c’era il dispenser.
Ma volevano il sapone.
Il vecchio portò loro un bagno schiuma che teneva in ospedale, ovviamente ancora sigillato.
Volevano i pannolini gratuitamente.
Volevano la colazione in camera per tutti e due, anche per il papà sdraiato con le scarpe sul letto della mamma.
Volevano sapere quando sarebbero usciti, visto che il giorno dopo un fiammante Boeing 737-800 di Ryanair li avrebbe depositati a Luton.
Volevano il pranzo per entrambi e in camera e gratuitamente.
Le infermiere correvano avanti e indietro dal papà, che dopo aver suonato il campanello usciva in corridoio ad attenderle a gambe larghe e braccia conserte.
Ma anche le infermiere volevano.
Volevano, ma timidamente, che il vecchio li mandasse al diavolo, ma il vecchio non sapeva abbastanza l’inglese per farlo.
Ma il bambino come stava?
Beh stava migliorando gradualmente, anche se importava solo al vecchio, che tornava ogni tanto ad auscultare il torace.
Finalmente se ne tornò a casa.
La giovane dottoressa che lo seguiva non perse tempo.
Alla prima richiesta di uscire fece firmare ai due extracomunitari il foglio di rifiuto delle prestazioni e permise loro di correre in taxi verso l’albergo dove il condizionatore infuriava e da dove avrebbero raggiunto finalmente l’aeroporto di Malpensa.
Benedetta brexit, pensò il vecchio al suo ritorno, ma come sono molto più allegri e simpaticoni i Turchi!

08 luglio 2017

Apologia del SUV

Sofia si sistemò comoda sulla poltroncina di plastica del bar Stop & Go. Controllò la scollatura prima che arrivasse Ramon.
-      Il solito? – chiese quest’ultimo, indispettito.
-     Porta anche un cappuccino per Sofsof – rispose Sofia. E aggiunse - ma un cuscino per queste sedie del cazzo? –
Ramon non raccolse, in fondo era una buona cliente, anche se con una lingua che tagliava come una sega a bindella.
-       Ecco la nostra no-vax – esordì da qualche metro di distanza Sofsof – anzi no, adesso si dice free-vax; ma perché ce l’avete solo con i vaccini e non con i fermenti lattici?  – proseguì – in fondo un farmaco fatto con  cacca di vacca dovrebbe avere molti più effetti collaterali… -
Sofia iniziò a gonfiare le gote, ma Sofsof la prevenne
-       Cambiamo argomento, dai, che non mi piace prendere bicarbonato fin dal mattino; che poi parlate di autismo e non distinguete un bambino viziato da uno disubbidiente! –
-       Sì, cambiamo, – convenne Sofia – che oggi Luciano porta fuori Loris tutta mattina in passeggino. –
-      Se c’è una cosa che mi fa ridere sono i papà che vogliono fare le mamme, anzi i mammi, – disse Sofsof assaggiando il cappuccino – buono il cappuccino, Ramon! A parte i cuscini che mancano su queste sedie del piffero. –
Ramon si consolò meditando la differenza fra un pene e un piffero, indubitabilmente anche quello un simbolo fallico; la signora Sofsof aveva detto la stessa cosa dell’altra, ma con una nuance d’eleganza vagamente attizzante.
-      Perché – petulò Sofia – sarebbe ora che i papà si spupazzassero i figli del loro seme! –
-   Ma non è spingendo un passeggino con aria ispirata e una faccia da pirla sempreverde che diventerebbe un vero padre. –
-      Beh, comunque fa comodo – confermò Sofia accendendo la seconda – per una volta che gli viene l’ispirazione… -
-    Se fossero bravi papà potrebbero iniziare a insegnargli a stare a tavola, ai figli del loro seme presunto! Domenica al mare c’era un bimbo che mangiava come un cane e il padre, che mangiava come un porco, si compiaceva. –
-       E la mamma? –
-    Ma no, in genere noi donne, anche se siamo di umili origini, sappiamo essere corrette, se non eleganti; come al volante – Proseguì Sofsof meditando se prendere anche una brioche con nutella.
-     Su questo ti devo dare ragione – confermò Sofia – al volante non ci sono storie, guidiamo molto meglio e non facciamo brutti segni con le mani. –
-      Il parcheggio, però… tu quel SUV lo butti sempre dove ti capita! –
-    Prova “te” a guidare quel coso, e poi Luciano l’ha preso solo per scaricare le tasse; quando lo rivende gli danno meno della metà dei quattrini che ha speso. -
-    Infatti li vendono per quello; cosa te ne fai di un SUV alto tre spanne da terra? Per salire sui marciapiedi come i Milanesi? Che poi quando vanno in montagna sembra che non abbiano mai visto un tornante; adesso per fortuna hanno il cambio automatico e non gli muore il motore. -

05 luglio 2017

Un ritorno - 3



Bologna Centrale. Frecciarossa arriva sibilando; ha recuperato qualche minuto del ritardo.
Dovrebbe essere un viaggio tranquillo.
Grazie all’età e all’iscrizione a una Cartafreccia mai ricevuta posso viaggiare in classe “Business Area Silenzio” a un costo inferiore alla seconda classe.
Poltrona molto comoda, posto finestrino in senso contrario al senso di marcia, grande tavolino e wi-fi.
Di fronte un signore vestito negligentemente casual molto firmato; è immerso nello studio di carte con l’intestazione dell’ UBI, grande banca apparentemente non ancora sfiorata da maldicenze.
Mi immergo parzialmente in Repubblica, con un occhio alla bassa padana che  scorre velocissima al di là del cristallo atermico e temperato.
A trecento chilometri orari le automobili più sportive sembrano ridicole, rutilanti e costose lumache che arrancano in corsìa di sorpasso sull’ex autostrada del sole.
Non so decidermi fra la recensione de “Il Viaggio di Yash” e un torpido dormiveglia.
Decido che farò una scappata alla Feltrinelli in Milano Centrale se Frecciarossa manterrà la promessa di orario.
Dal dormiveglia dell’ovattato scompartimento mi distoglie l’interfono che cerca un medico per la carrozza 3A, adiacente alla mia.
Estraggo dallo zaino quei due/tre ameniccoli che un medico si trascina sempre appresso e dopo aver attraversato la 3A trovo un ragazzotto sulla quarantina che si è preso il portatile in testa mentre lo toglieva dalla rastrelliera.
Non è una grossa ferita lacero-contusa, la medicazione è rapida, ma perdo un bel po’  di tempo a trascrivere su un modulo in triplice copia, la prima repubblica è ancora viva, i miei dati medico/anagrafici.
Quando ritorno alla mia comoda poltrona in Business Area Silenzio sfilano dal finestrino i primi palazotti eleganti di San Donato Milanese.
Don’t worry, Doc, il treno è in orario, Feltrinelli ti aspetta e anche uno sgargiante elettrotreno per Colico, affollato come una scatola di sardine ma con l’aria condizionata funzionante.  

03 luglio 2017

Un ritorno - 2


La ragazza, sui trentacinque, è raggomitolata sul sedile, con le gambe flesse, e sembra fusa insieme allo smartphone nel quale parla concitata.
Una sahariana le permette una posizione acrobatica ma castigata dalla quale conversa con sua madre a un volume sufficientemente basso da non turbare troppo il mondo circostante, ma abbastanza alto da non permettermi di sonnecchiare.
-  Lo stress la fa dimagrire, altri invece ingrassano, mamma, e i figli di Francesco sono disperati, e le figlie di Lucia la fanno dannare, fortunata lei che non ne ha, d’altra parte il ginecologo è stato esplicito, ma forse è meglio cambiarlo, mamma, che ne dici? E Donato è lontano ma è sempre un caro amico, e sì lei sta bene e scenderà a Rimini – Liberazione! – e poi non si sa come finirà con questo nuovo lavoro che appare interessante ma non permette di esprimere liberamente la sua natura. -
La telefonata finisce bruscamente, prima che la scoperta della sua natura turbi il mio dormiveglia; una coppia di auricolari appare per magia; la ragazza assume una posizione più consona al viaggio e chiude gli occhi immergendosi nella sua musica.
L’Adriatico scorre veloce rimandando le prime spiagge di Cattolica e Misano. 
- Scendo a Riccione – tuona nel cellulare a due file di distanza una voce maschile stentorea e romanesca – e vado a pranza’ in quella trattoria vicina a Pepe Nero, poi prendo il pullmann e salgo da te, ma non ti disturbare, non voglio che tu lasci i tuoi impegni, sei già abbastanza impegnato – ah, parla con un amico, sì il tono con una donna sarebbe stato più sommesso, confidenziale e complice – ah non si mangia bene in quel posto… come? È meglio Mariscos? Ma si paga il giusto? Bene, e ci saranno autobus anche di domenica? Non ti preoccupare, fai quello che devi fare che ora arrivo e poi salgo. –
Anche questa telefonata finisce bruscamente, la fanciulla scende a Rimini e si libera il posto al finestrino; vicino al vetro l’aria condizionata concede respiro e asciuga il sudore ma la ferrovia si allontana inesorabilmente dal mare.
Cesena.
Forlì.
Faenza, il mio primo congresso a ventott’anni.
Parlavo in pubblico per la prima volta dai tempi delle assemblee del liceo, ma questa volta era un’altra cosa.
Ero talmente impreparato da non avvertire alcuna emozione e parlai dal palco con la sicumera dell’assistente universitario che crede di sapere già tutto.
Nessuno fece domande, credo che l’argomento fosse talmente banale – oggi me ne vergogno ancora – ma mi emozionò l’applauso tiepido che non si nega a nessun intervento; ma non lo sapevo ancora.  
Salgono due signore, piacenti, sulla cinquantina, eleganti nel casual firmato.
Si siedono con grazia, parlano sottovoce, sono insegnanti, la loro buona educazione e il tono sommesso mi conciliano l’inquieto dormiveglia. 
Ci pensa il mio cellulare.
 
E’ un papà spaventato da quanto sta succedendo alla sua bimba di un mese. Cerco di tranquillizzarlo assicurandolo che verse le 18 sarò in ospedale e mi occuperò di loro.
Non è nulla di importante, ma il panico si è impadronito di loro.
Chiudo con una delle mie citazioni – Nell’urgenza l’unica cosa che non serve è il panico! -
Tanto basta per stimolare il sorriso della signora di fronte.
Moglie di medico, oculista e primario, si sente riconoscente e complice dell’inatteso compagno di viaggio.
Così parlando di ricordi d’università, Roma, il sindaco di Roma - disgrazia peggiore dell’Urbe, mi creda, dottore – non dubito signora – ultima fermata Castel Bolognese e finalmente Bologna Centrale.
Le signore, la moglie di medico e la silenziosa prenderanno un Frecciarossa che scende, io un Frecciarossa che sale.
L’app di Trenitalia mi informa che viaggia con dieci minuti di ritardo; ci stanno una birra e un panino mignon al salmone.
Frecciarossa ferma, quando ferma a Bologna, a un piano del ferro che sta due piani sotto la stazione.
Scendo scale mobili modernissime che evocano stazioni delle città tedesche o la splendida e smisurata Madrid Centrale.
Ripenso agli USA dove quasi ogni città è la fedele riproduzione dell’altra e solo l’occhio esperto riconosce lo skyline di Denver da quello di Detroit.
Le stazioni sono moderne ma inesorabilmente vecchie e restilizzate solo dall’inox e dal plexiglas. Le ferrovie americane contendono a Greyhound l’umanità che non possiede i soldi per viaggiare in aereo e che non possiede un’automobile.
Oppure la massa critica dei pendolari ispanici e di colore.


02 luglio 2017

Un ritorno - 1

Salgo a Montelupone-Porto Potenza Picena; prima tappa Ancona.
La stazioncina di Montelupone è spartana ma pulita; dopo l’abbandono di lunghi anni, dopo il pesante ridimensionamento del personale, per lunghi anni le stazioni ferroviarie italiane erano diventate discariche polverose e luridi ripari per un’umanità minore senza casa, senza fantasia e senz’anima ma ben fornita di bombolette spray.
Da qualche tempo qualche idea di riciclo è balenata agli amministratori locali e una pro-loco o un ufficio turistico o un caffè hanno tolto qualche sperduta stazione di provincia al degrado.
Ma tant’è, non c’è tempo per tante riflessioni e salgo deciso.
Il treno è moderno, colorato, condizionato.
E pieno.
Trovo posto su una poltroncina pieghevole vicino alla porta automatica e pneumatica.
I compagni di viaggio che riesco a vedere e quelli che scendono o salgono ad ogni stazione non sono italiani. Arabi, neri, levantini o balcanici
Quasi tutti si immergono nello smartphone a costruire una solida barriera verso chi e verso quanto li circonda.
Le colline marchigiane sfilano indifferenti e nessuno alza lo sguardo neppure sul santuario di Loreto che domina il mare prima del Conero.
A tratti una suoneria supera lo sferragliare discreto ed esplodono brevi conversazioni in lingue sconosciute.
Ancona si avvicina e una coppia di orientali, forse cinesi, forse vietnamiti, arranca con due trolley smisurati sino al vestibolo.
Lui si siede di fianco a me; la signora su un altro sedile piegevole ancora più vicino alla porta.
Cicaleccio in lingua orientale piena di vocali; lei petulante, lui più composto.
Mi chiede più che altro a gesti se Ancona sia vicina. Annuisco rassicurante poi devo faticare a convincerli a non scendere alla sperduta fermata di Ancona Stadio, poco più di un casello.
Con poca convinzione si fidano ma si aprono finalmente a un sorriso solo quando entriamo trionfanti ad Ancona Centrale.
Mi ringraziano più volte e scompaiono trascinando i loro jumbo-trolley pesantissimi.
Ho qualche minuto per la corrispondenza per Bologna e ne approfitto per fotografare qualche Frecciarossa e Frecciabianca che salgono e scendono incessanti la dorsale Adriatica con i loro posti numerati che non sono riuscito a prenotare.
Il treno Regionale Veloce sonnecchia al binario 4.
Vetture a due piani, sedili stretti e scomodi, credevo fosse un locale per qualche strana cittadina dell’entroterra, invece è proprio il Regionale Veloce, ed è bello affollato.
Ero abituato a distinguere i treni in “diretti” e “accelerati”, poi questi ultimi hanno cominciato a chiamarli più correttamente “locali” e la differenza è che fermavano a tutte le stazioni mentre i “diretti” ne saltavano una buona metà.
Poi c’erano i “rapidi” che univano Milano a Roma e Firenze e Bologna, ma fra Torino e Milano e Genova c’erano ancora solo treni diretti o “direttissimi” che poi erano i rapidi dei poveri.
Arranco al piano rialzato alla ricerca di un posto finestrino orientato nel senso di marcia, una mia fissazione, ma non ne trovo e ripiego su uno opposto al senso di marcia, di fronte a una giovane signora raggomitolata attorno al suo smartphone.
Il senso del viaggio per me è più importante della lunghezza del tragitto.
Il posto al finestrino sul treno, sulla corriera o il seat window dell'aereo sono irrinunciabili; la loro mancanza è quasi un disagio fisico.
Prigioniero dei miei retaggi infantili amo il viaggio in modo puerile.
Per me è importante il finestrino, il paesaggio che scorre con il suo fascino dei luoghi conosciuti o con la scoperta, anche quella infantile, e la meraviglia dei luoghi sconosciuti che attraverso.
Ricordo con sgomento la noia delle lunghe ore di volo da una parte all’altra dell’oceano mentre è vivo il ricordo struggente di un viaggio su un trenino a scartamento ridotto, sferragliante e ansimante da Bari a Matera.
Oppure di una lentissima “littorina” lungo la dorsale sarda in salita sino a Bonorva e poi in discesa stridente ad ogni curva lungo la valle del Tirso sino a respirare il paesaggio quieto del Campidano dopo Oristano con l’aria calda e immobile.
E umanità dolente e silenziosa, o chiassosa di studenti pendolari.
Con cartocci di pane e bottiglie di vino scuro o sacchetti di patatine unte e cocacola a canna.