La ragazza, sui trentacinque, è raggomitolata sul sedile,
con le gambe flesse, e sembra fusa insieme allo smartphone nel quale parla
concitata.
Una sahariana le permette una posizione acrobatica ma castigata
dalla quale conversa con sua madre a un volume sufficientemente basso da non
turbare troppo il mondo circostante, ma abbastanza alto da non permettermi di
sonnecchiare.
-
Lo stress la fa dimagrire, altri invece
ingrassano, mamma, e i figli di Francesco sono disperati, e le figlie di Lucia
la fanno dannare, fortunata lei che non ne ha, d’altra parte il ginecologo è
stato esplicito, ma forse è meglio cambiarlo, mamma, che ne dici? E Donato è
lontano ma è sempre un caro amico, e sì lei sta bene e scenderà a Rimini –
Liberazione! – e poi non si sa come finirà con questo nuovo lavoro che appare
interessante ma non permette di esprimere liberamente la sua natura. -
La telefonata finisce bruscamente, prima che la scoperta
della sua natura turbi il mio dormiveglia; una coppia di auricolari appare per
magia; la ragazza assume una posizione più consona al viaggio e chiude gli
occhi immergendosi nella sua musica.
L’Adriatico scorre veloce rimandando le prime spiagge di
Cattolica e Misano.
- Scendo a Riccione – tuona nel cellulare a due file di distanza una voce maschile stentorea e romanesca – e vado a pranza’ in quella trattoria vicina a Pepe Nero, poi prendo il pullmann e salgo da te, ma non ti disturbare, non voglio che tu lasci i tuoi impegni, sei già abbastanza impegnato – ah, parla con un amico, sì il tono con una donna sarebbe stato più sommesso, confidenziale e complice – ah non si mangia bene in quel posto… come? È meglio Mariscos? Ma si paga il giusto? Bene, e ci saranno autobus anche di domenica? Non ti preoccupare, fai quello che devi fare che ora arrivo e poi salgo. –
- Scendo a Riccione – tuona nel cellulare a due file di distanza una voce maschile stentorea e romanesca – e vado a pranza’ in quella trattoria vicina a Pepe Nero, poi prendo il pullmann e salgo da te, ma non ti disturbare, non voglio che tu lasci i tuoi impegni, sei già abbastanza impegnato – ah, parla con un amico, sì il tono con una donna sarebbe stato più sommesso, confidenziale e complice – ah non si mangia bene in quel posto… come? È meglio Mariscos? Ma si paga il giusto? Bene, e ci saranno autobus anche di domenica? Non ti preoccupare, fai quello che devi fare che ora arrivo e poi salgo. –
Anche questa telefonata finisce bruscamente, la fanciulla
scende a Rimini e si libera il posto al finestrino; vicino al vetro l’aria
condizionata concede respiro e asciuga il sudore ma la ferrovia si allontana
inesorabilmente dal mare.
Cesena.
Forlì.
Faenza, il mio primo congresso a ventott’anni.
Parlavo in pubblico per la prima volta dai tempi delle
assemblee del liceo, ma questa volta era un’altra cosa.
Ero talmente impreparato da non avvertire alcuna emozione e
parlai dal palco con la sicumera dell’assistente universitario che crede di
sapere già tutto.
Nessuno fece domande, credo che l’argomento fosse talmente
banale – oggi me ne vergogno ancora – ma mi emozionò l’applauso tiepido che non
si nega a nessun intervento; ma non lo sapevo ancora.
Salgono due signore, piacenti, sulla cinquantina, eleganti
nel casual firmato.
Si siedono con grazia, parlano sottovoce, sono insegnanti,
la loro buona educazione e il tono sommesso mi conciliano l’inquieto
dormiveglia.
Ci pensa il mio cellulare.
E’ un papà spaventato da quanto sta succedendo alla sua
bimba di un mese. Cerco di tranquillizzarlo assicurandolo che verse le 18 sarò
in ospedale e mi occuperò di loro.
Non è nulla di importante, ma il panico si è impadronito di
loro.
Chiudo con una delle mie citazioni – Nell’urgenza l’unica
cosa che non serve è il panico! -
Tanto basta per stimolare il sorriso della signora di
fronte.
Moglie di medico, oculista e primario, si sente riconoscente
e complice dell’inatteso compagno di viaggio.
Così parlando di ricordi d’università, Roma, il sindaco di
Roma - disgrazia peggiore dell’Urbe, mi creda, dottore – non dubito signora –
ultima fermata Castel Bolognese e finalmente Bologna Centrale.
Le signore, la moglie di medico e la silenziosa prenderanno
un Frecciarossa che scende, io un Frecciarossa che sale.
L’app di Trenitalia mi informa che viaggia con dieci minuti
di ritardo; ci stanno una birra e un panino mignon al salmone.
Frecciarossa ferma, quando ferma a Bologna, a un piano del
ferro che sta due piani sotto la stazione.
Scendo scale mobili modernissime che evocano stazioni delle
città tedesche o la splendida e smisurata Madrid Centrale.
Ripenso agli USA dove quasi ogni città è la fedele
riproduzione dell’altra e solo l’occhio esperto riconosce lo skyline di Denver
da quello di Detroit.
Le stazioni sono moderne ma inesorabilmente vecchie e
restilizzate solo dall’inox e dal plexiglas. Le ferrovie americane contendono a
Greyhound l’umanità che non possiede i soldi per viaggiare in aereo e che non
possiede un’automobile.
Oppure la massa critica dei pendolari ispanici e di colore.
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