Classe 1912 - Morbegno - la zia è la seconda da sinistra in terza fila |
Per
noi
e
per
chi
ha
conservato
un
po'
di
nostalgia
del
vivere
in
paese
il
termine
giusto
è
“bottega”,
con
varie
declinazioni.
Cambiava
da
paese
a
paese
e
anche
nello
stesso
paese.
La
bottega
era
qualcosa
in
meno
della
drogheria,
tutto
qui.
La
drogheria,
dove
dominava
il
droghiere,
in
dialetto
lombardo
“fundeghée”,
ma
assente
dal
vernacolo
valtellinese,
era
negozio
grande
e
robusto,
gestito
da
maschi.
Ci
si
trovava
di
tutto,
dal
salnitro
per
garantire
la
conservazione
dei
salami,
allo
zolfo
da
soffiare
in
polvere
vaporosa
nelle
vigne,
passando
per
il
ceruleo
solfato
di
rame,
e
finire
con
pesanti
cartoni
di
sapone
“in
scaglie”
e
rotoli
di
corda.
Nella
drogheria
si
entrava
con
soggezione,
temperata
dalla
malcelata
soddisfazione
che
si
sarebbe
trovato
tutto
e
a
giusto
prezzo.
Nel
mio
paese
ce
n'era
una
sola:
la
Cooperativa.
La
Cooperativa
era
femmina,
ma
gestita
con
pugno
inflessibile
e
casacca
grigia
prima
dal
Faüstin
e
poi
dal
suo
terzogenito
Diego.
Trent'anni
dopo
ritrovai
gli
stessi
odori,
la
stessa
penombra
e
la
stessa
paternalistica
pazienza
al
di
là
del
mare,
in
qualche
“Grocery”
dell'Oregon.
La
bottega
invece
era
una
cosa
più
semplice,
di
contrada,
e
spesso
gestita
al
femminile,
come
dalla
mia
ieratica
zia
o
dall'umbratile
“Ghina”
in
centro
al
paese.
Oltre
agli
alimentari,
ai
sali
e
ai
tabacchi
c'erano
articoli
diversi
e
stagionali:
carta,
quaderni,
penne,
matite,
buste di figurine, e ancora pennini, piccole scatole di pastelli
Giotto, lampadine, gomme, temperamatite, tutte cose accomunate da uno
scaffale lontano dagli alimentari, con un suo odore e un conseguente
suo fascino discreto.
Fuori
dalla porta, al sole dall'autunno alla primavera inoltrata, stavano
un distributore di sferoidali e multicolori gomme da masticare, e uno
di figurine di calciatori, inconsapevoli precursori del self service.
Infine,
[... come mi ricordano lettori affezionati e qualcuno anonimo ...] saggiamente
ma a giudizio insindacabile della zia, nell'ultimo cassetto a destra,
quello dopo la cassa e altrettanto protetto da chiave, stava il mazzo
dei libretti.
Il
libretto, di solido cartone azzurro carta da zucchero, aveva fogli di
carta a quadretti “commerciale”, oppure a semplici righe “di
quinta”.
Giorno
per giorno i clienti abituali vedevano segnata la loro spesa. Il
conto veniva saldato a fine mese o in date concordate comunque dopo
il 27.
Era
un mezzo di credito artigianale, senza interessi, che ha permesso a
molte famiglie un decoro che non era così scontato anche in tempi di
boom economico, soprattutto per i primi timidi immigrati dal sud.
Le
cose non erano sempre così rosee e quando la zia, per meritati e
maturati limiti d'età, passata ormai la settantina, decise di
chiudere bottega,le rimase un piccolo mazzetto di libretti a
testimoniare quelli che in termini bancari si chiamano tristemente
“crediti inesigibili”.
1 commento:
Ahahahah!!! anche la mia mamma aveva la bottega!!!! e quando alla fine degli anni novanta ha deciso di andare in pensione anche a lei sono rimasti alcuni libretti azzurri sui quali non è mai comparsa la dicitura "PAGATO"!!!!!!!
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