Anche ora e
ancora è al suo posto; scrostato, francamente avviato alla decadenza.
Il portone era
di legno di faggio, avrebbe voluto essere di cirmolo o castagno. Non aveva mai
sperato di essere di noce. A me sarebbe piaciuto pensarlo di ciliegio, come il
ciliegio che nonno Martino aveva piantato nel ’30.
Forse l’aveva
piantato in memoria dello zio Silvio, che se n’era andato nel ’21 durante l’ultima
epidemia di tifo, nato durante l’epidemia della Spagnola, dopo due femmine e
destinato a perpetuare la storia della famiglia, di primogenito in primogento.
Fino a una
quarantina d'anni addietro il portone era l'unico ingresso del cortile.
Il cortile
era equamente diviso fra terra battuta e selciato, ma selciato dopo il portone
e fin davanti alla casa, dove la pergola annunciava la vigna.
Una porta più
piccola si apriva sull'anta di sinistra, quella destra era tenuta saldamente
chiusa dalla controventatura di un lungo catenaccio.
Poi
arrivarono strane serrature, l'ultima elettrica, ma il rumore del catenaccio
che cadeva a terra all'apertura del portone racchiudeva emozioni che durano.
Era l'arrivo
di mio padre, cui il portone si faceva trovare aperto.
Poi, entrata
la millecento, prima bigia, poi bicolore beige e marrone, infine l'ultima,
celestina, qualcuno veniva mandato a sprangare.
Il portone si
richiudeva sulla serata speciale.
Il papà
portava bobine di un Chaplin muto che ticchettava sul proiettore 8 millimetri,
surrogato e succedaneo inconscio del Carosello di là a venire.
Poi
arrivavano gli autocarri.
Il portone
veniva aperto senza preavviso e il “Tigrotto” celeste entrava lentamente.
Portava
tronchi di faggio per la fabbrica di zoccoli del Battista, che stava in
cortile.
Il lento
motore diesel vibrava lamiere e portiere mentre veniva scelto il posto.
Poi si
avvicinava lentamente e il cassone si alzava verso il cielo spinto del
lucidissimo pistone idraulico.
Con fragore i
tronchi rovinavano a terra all'improvviso, spesso in grovigli che vane
bestemmie cercavano di scongiurare.
Poi il
Tigrotto ripartiva, con lamiere e portiere placate da sapienti accelerate e a
qualcuno, spesso a me, toccava di sprangare.
La porta più
piccola spesso veniva tenuta aperta, ma la zia Angelina sosteneva che facesse
corrente.
E infatti
sovente sul selciato che scendeva da portone esplodevano fruscianti mulinelli
di foglie d'edera e vite del Canadà che
gareggiavano con le foglie del glicine e con la polvere fino quando qualcuno, spesso toccava a me, veniva
spedito a sprangare.
A volte
un'umanità dolente varcava il portone durante caldi pomeriggi d'estate.
Erano
mendicanti, povera gente sciancata o mutilata che entrava alla ricerca di un
bicchier d'acqua e una rosetta di pane, che la zia non negava a nessuno, e di
un calice di vino dal Battista, che li cacciava bonariamente con una moneta da
spendere all'osteria.
Da quel
portone era entrata tanta gente.
E anche
uscita.
Lo zio Silvio
nel '21, poi i nonni, nel '36, a pochi mesi di distanza, incapaci di reggere la
solitudine.
Il portone
apriva e chiudeva. Quando necessario qualcuno usciva a sprangare sollevando il pesante catenaccio con un
cigolio che annunciava al resto della casa arrivi e partenze.
Poi la vigna
fu tolta, chiusa la bottega e aperto un nuovo cancello là dove il mondo un
tempo aveva confine: in fondo alla vigna.
Il portone
rimase sprangato defnitivamente; veniva aperto due volte l'anno per eliminare
le foglie,ormai nemiche, che si annidavano sotto.
Quando partì
mio padre il carro aspettava fuori, su quella strada che era stata nazionale,
poi provinciale, e aveva adombrato il nome di “nazionale vecchia”.
Ma i carro
attese invano.
E gli Alpini
decisero altrimenti; mio padre lo portarono a spalla verso la chiesa
attraversando quel prato che era stato una vigna.
Il portone
rimase sprangato e io, finalmente consolato dal pianto, spensi la sesta di
Beethoven dopo il secondo movimento.
Poi credo che
raggiunsi la chiesa in auto, che non era già più dietro il portone, ma sul
prato che era stata la vigna del nonno Martino.