Il
passaggio a Verona rispecchiava altre riflessioni.
In
buona sostanza ero stufo di fare lo studente. Frequentare il
policlinico, poi studiare in camere d’affitto, poi tirar notte
nelle osterie non faceva più per me.
Ogni
caffè era pagato con i quattrini di mio padre; il pensiero di mio
padre che lavorava ogni giorno mentre sostanzialmente io facevo una
vita disimpegnata diventava ogni giorno più insopportabile.
In
ospedale mi chiamavano “dottore” solo perchè portavo un camice
bianco ed era frustrante.
Non
sapevo ancora che sarebbe stato un circolo vizioso.
Da
studente aspiravo ad essere laureato. Da laureato avrei aspirato ad
essere tirocinante. Da tirocinante avrei aspirato ad essere
specializzando; da specializzando mi sarei sentito frustrato a non
essere assistente; dopo tanti anni da assistente avrei cominciato a
pensare di avere la maturità per diventare aiuto ospedaliero.
E
ho sempre pensato che questo fosse il coronamento dei miei sogni.
Ma
torniamo a Verona.
L’impatto
fu penoso.
La
città a metà degli anni 70 del secolo scorso non era abituata agli
studenti universitari e li sopportava.
Il
policlinico era fiammante ma gli uffici dell’università erano
ospitati in vecchi palazzi in riva all’Adige vicino al cimitero.
La
mensa universitaria era in costruzione e si doveva ripiegare su
quella municipale dove mangiavano “i poveri” e qualche barbone
che riusciva a racimolare gli spiccioli necessari a permettersi
un’alternativa alla zuppa del Convento dei Francescani di Via
Fincato.
Avevo
rimediato una camera in affitto da zia e nipote, nubili, in un brutto
quartiere, Borgo Venezia.
Le
signorine avevano passato l’età sinodale e mi offrivano ogni sera
vino rosso della Valpolicella. Mi invitavano alle ricorrenze
famigliari sperando in un mio fidanzamento con improbabili nipotine,
ferite dalla cellulite sin dall’adolescenza e visibilmente
destinate a seguire il loro destino.
Ma
il mio imperativo categorico era arrivare alla laurea, possibilmente
senza andare fuori corso, e mi ero impegnato senza compromessi.
C’era
una novità rispetto a Parma: avevo l’automobile, una fiammante
Autobianchi A 112 blu notte.
A
Verona giravano brutte compagnie e molta eroina.
L’automobile
mi venne forzata tre volte; ci rimediai il furto di due autoradio, un
paio di scarponi da sci e quattro contentori per diapositive, che
verosimilmente avevano acceso la fantasia dei balordi che giravano
nel quartiere.
In
un paio di occasioni avevo rischiato di essere trascinato in qualche
rissa che scoppiava davanti alle pizzerie lungo l’Adige, ma ero
riuscito a fuggirne poco onorevolmente di fronte alle provocazioni.
Io
frequentavo assiduamente gli ospedali.
I
principali ospedali di Verona erano il Policlinico di Borgo Roma e
l’Ospedale Maggiore di Borgo Trento.
Completavano
il gruppo l’Ospedale Psichiatrico di Marzana e quello pneumologico
del Chievo.
In
Policlinico ero guardato un po’ con il sospetto dell’immigrato,
come succede a chi cambia Ateneo, e avevo rimediato un cortese
rifiuto alla domanda di frequentare la divisione di Ematologia.
Stesso
risultato
in
Anatomia
Patologia,
roccaforte
del
PCI,
dove
mi
avevano
fatto
capire
senza
mezzi
termini
che
non
avrei
avuto
alcuna
chance
senza
la
“tessera”.
Ero
alla costante ricerca del Maestro e l’avevo trovato nei professori
De Sandre e Vettore della Patologia Medica, ma i loro interni avevano
pensato bene di tenere alla lontana qualunque studente volesse
entrare in concorrenza.
Ero
stato
accettato,
e
apprezzato,
per
il
tirocinio
obbligatorio
nella
Chirurgia
Prima dell’
Ospedale
di
Borgo
Trento,
poi
avevo
iniziato
a
frequentare
quell’Anatomia
Patologica,
e
infine
ero
rientrato
nel
Policlinico
di
Borgo
Roma
per
la
tesi
finale
in
Chirurgia
Pediatrica.
Dopo
la laurea ero approdato in Clinica Pediatrica e lì si era compiuto
il mio destino.
In
un anno mi ero integrato molto bene. Il mio merito era la capacità
di sviluppare le fotografie e quindi di approntare le slides per i
congressi in poche ore.
Alla
luce di questa mia dote ero riuscito ad entrare nella scuola si
specializzazione al primo tentativo.
Avevo
un’idea molto confusa della professione e della ricerca. Quello che
mi era chiaro era il mio destino ospedaliero.
Non
amavo il lavoro del medico condotto, pur comprendendone il fascino e
i vantaggi.
La
verità era che navigavo in un’ignoranza abissale.
L’ingresso
in Clinica Pediatrica era stata un po’ una rinascita e avevo
iniziato seriamente il cammino che percorro ancora oggi, arrivato ben
oltre quanto sperassi, quanto credessi e quanto meritassi.
Sul
fronte personale stendiamo un velo pietoso. Erano arrivati due figli
belli e simpatici, e lo sono tuttora, ma con una donna che non mi
amava e che non mi ha mai amato.
Ma io so amare: il prossimo, il lavoro e i figli. Anche senza esserne ricambiato.
Ma io so amare: il prossimo, il lavoro e i figli. Anche senza esserne ricambiato.
E
fino al 1985 tutto rimase quasi bello, senza grandi responsabilità,
ma senza guerre e neppure nemici.
(fine
per ora, poi si vedrà)
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