29 giugno 2013

Scansioni della memoria: il portone



Anche ora e ancora è al suo posto; scrostato, francamente avviato alla decadenza.
Il portone era di legno di faggio, avrebbe voluto essere di cirmolo o castagno. Non aveva mai sperato di essere di noce. A me sarebbe piaciuto pensarlo di ciliegio, come il ciliegio che nonno Martino aveva piantato nel ’30.
Forse l’aveva piantato in memoria dello zio Silvio, che se n’era andato nel ’21 durante l’ultima epidemia di tifo, nato durante l’epidemia della Spagnola, dopo due femmine e destinato a perpetuare la storia della famiglia, di primogenito in primogento.
Fino a una quarantina d'anni addietro il portone era l'unico ingresso del cortile.
Il cortile era equamente diviso fra terra battuta e selciato, ma selciato dopo il portone e fin davanti alla casa, dove la pergola annunciava la vigna.
Una porta più piccola si apriva sull'anta di sinistra, quella destra era tenuta saldamente chiusa dalla controventatura di un lungo catenaccio.
Poi arrivarono strane serrature, l'ultima elettrica, ma il rumore del catenaccio che cadeva a terra all'apertura del portone racchiudeva emozioni che durano.
Era l'arrivo di mio padre, cui il portone si faceva trovare aperto.
Poi, entrata la millecento, prima bigia, poi bicolore beige e marrone, infine l'ultima, celestina, qualcuno veniva mandato a sprangare.
Il portone si richiudeva sulla serata speciale.
Il papà portava bobine di un Chaplin muto che ticchettava sul proiettore 8 millimetri, surrogato e succedaneo inconscio del Carosello di là a venire.
Poi arrivavano gli autocarri.
Il portone veniva aperto senza preavviso e il “Tigrotto” celeste entrava lentamente.
Portava tronchi di faggio per la fabbrica di zoccoli del Battista, che stava in cortile.
Il lento motore diesel vibrava lamiere e portiere mentre veniva scelto il posto.
Poi si avvicinava lentamente e il cassone si alzava verso il cielo spinto del lucidissimo pistone idraulico.
Con fragore i tronchi rovinavano a terra all'improvviso, spesso in grovigli che vane bestemmie cercavano di scongiurare.
Poi il Tigrotto ripartiva, con lamiere e portiere placate da sapienti accelerate e a qualcuno, spesso a me, toccava di sprangare.
La porta più piccola spesso veniva tenuta aperta, ma la zia Angelina sosteneva che facesse corrente.
E infatti sovente sul selciato che scendeva da portone esplodevano fruscianti mulinelli di foglie d'edera e  vite del Canadà che gareggiavano con le foglie del glicine e con la polvere fino  quando qualcuno, spesso toccava a me, veniva spedito a sprangare.
A volte un'umanità dolente varcava il portone durante caldi pomeriggi d'estate.
Erano mendicanti, povera gente sciancata o mutilata che entrava alla ricerca di un bicchier d'acqua e una rosetta di pane, che la zia non negava a nessuno, e di un calice di vino dal Battista, che li cacciava bonariamente con una moneta da spendere all'osteria.
Da quel portone era entrata tanta gente.
E anche uscita.
Lo zio Silvio nel '21, poi i nonni, nel '36, a pochi mesi di distanza, incapaci di reggere la solitudine.
Il portone apriva e chiudeva. Quando necessario qualcuno usciva a sprangare  sollevando il pesante catenaccio con un cigolio che annunciava al resto della casa arrivi e partenze.
Poi la vigna fu tolta, chiusa la bottega e aperto un nuovo cancello là dove il mondo un tempo aveva confine: in fondo alla vigna.
Il portone rimase sprangato defnitivamente; veniva aperto due volte l'anno per eliminare le foglie,ormai nemiche, che si annidavano sotto.
Quando partì mio padre il carro aspettava fuori, su quella strada che era stata nazionale, poi provinciale, e aveva adombrato il nome di “nazionale vecchia”.
Ma i carro attese invano.
E gli Alpini decisero altrimenti; mio padre lo portarono a spalla verso la chiesa attraversando quel prato che era stato una vigna.
Il portone rimase sprangato e io, finalmente consolato dal pianto, spensi la sesta di Beethoven dopo il secondo movimento.
Poi credo che raggiunsi la chiesa in auto, che non era già più dietro il portone, ma sul prato che era stata la vigna del nonno Martino.

Nessun commento: