In
bottega c’erano gli alimentari, ma la grande T bianca in campo nero
annunciava che si trattava della gloriosa rivendita n. 4 di Sali e
tabacchi, monopoli di Stato assieme al chinino.
Per
il sale non c’è molto da dire, a parte il vicino panificio che
giustamente ne acquistava in quantità adeguate, il resto della gente
si limitava allo stretto indispensabile.
La
zia usava solo sale fino anche per salare l’acqua della pasta e io
mi chiedevo come mai la nonna, nell’altra casa, quella paterna,
insistesse a usare il sale grosso, molto più economico.
Solo
qualche decennio più tardi scoprii la storia di fame e privazioni da
cui usciva mia nonna paterna, sposata a un socialista durante il
ventennio funereo.
Per
i tabacchi la cosa era molto più interessante.
Prima
di tutto c’erano le sigarette, di tante marche di tanti pacchetti
multicolori e vendute spesso sfuse.
In
questi casi la zia le incartava in pezzi di carta bianca leggera e
intascava i pochi spiccioli.
Ciascuno
aveva le sue abitudini conosciute e spesso quindi il dialogo verteva
sul tempo e le stagioni, mentre con gesti automatici la zia sceglieva
il giusto pacchetto, e preparava il resto della moneta.
Poi
c’erano i fumatori di pipa.
I
più fumavano il tabacco “di prima” intesa come prima qualità, o
“trinciato forte”, in confezioni morbide ci carta verdognola.
Per
i più poveri c’era il tabacco “di seconda”, fatto con le
spuntature dei toscani, in pacchetti altrettanto verdognoli ma più
economici.
Qualcuno
accendeva
la
pipa
prima
di
uscire
dalla
bottega,
specie
nelle
giornate
fredde
e
ventose,
ammorbando
l’aria
con
un
fumo
acre
e
per
me
irrespirabile,
ricevendone
dalla
mitica
zia
secchi
rimproveri
e
inviti
imperiosi
ad
andarsene.
E
infine, decisamente più pittoreschi, gli estimatori del “toscano”.
Entravano
e si facevano dare la scatola di legno, che ho gelosamente
conservato, dove riposavano i lunghi sigari bitorzoluti.
Le
dita stringevano delicatamente il sigaro alla ricerca dello
scricchiolìo sommesso che suggeriva la giusta stagionatura del
tabacco; il toscano veniva poi annusato con attenzione e il colore
controllato alla luce giusta.
Talora
gli uomini uscivano borbottando nel cortiletto non fidandosi della
luce rossastra delle lampadine da venticinque candele.
Compiuta
la scelta uscivano soddisfatti dopo aver pagato qualche spicciolo.
Il
più misterioso era il “Maestro di musica”. Assolutamente
silenzioso, non l’ho mai sentito parlare.
Vedovo,
viveva
distante
con
una
figlia
nubile
e
“pettinatrice”,
altrettanto
austera
e
che
sarebbe
morta
giovane.
Lo
vedevo passeggiare perennemente con un cappello di feltro, con le
mani sempre incrociate dietro la schiena, il mezzo toscano in bocca,
spento o acceso secondo le circostanze.
Come
facesse a insegnare musica nel suo mutismo rimane un mistero.
Le
sue
sole
uscite
pubbliche
erano
durante
le
processioni
solenni,
quando
camminava
a
fianco
della
banda
musicale,
che
naturalmente
suonava
senza
esserne
diretta,
sempre
assorto,
sempre
con
il
cappello
di
feltro,
sempre
con
le
mani
incrociate,
togliendosi
il
cappello,
ma
non
sempre
il
mezzo
toscano,
solo
all’ingresso
della
chiesa.
Con
passo silenzioso entrava nella bottega della zia, che gli porgeva la
scatola dei toscani.
Sceglieva
il suo sigaro con aria assorta e un po’ assente, poi pagava
silenziosamente e usciva salutando con un cenno del capo.
C’era
anche
qualche
bracciante
talmente
sudicio
che
non
aveva
il
permesso
di
scegliere
i
toscani.
Nonostante
le
rimostranze
la
zia
sceglieva
per
lui,
impassibile,
scegliendo
il
sigaro
di
consistenza
e
colore
adeguati,
poi
lo
porgeva
evitando
accuratamente
il
contatto
fisico.
Dopo
aver
incassato
il
dovuto
lasciava
il
negozio
e
riparava
in
cucina
a
lavarsi
le
mani
contaminate
dal
contatto
e
dal
tabacco.
Fra
le donne della contrada c’erano note amicizie e inimicizie.
Le
signore con provate inimicizie evitavano di arrivare in negozio
contemporaneamente per evitare incontri imbarazzanti, ma qualche
volta sbagliavano il tempo.
A
quel punto spesso lo screzio era inevitabile e si concludeva con
interminabili catilinarie dell’ultima rimasta, che non si decideva
a uscire alla porta della bottega.
La
zia ascoltava impassibile, con il solito sorriso enigmatico e non
prendeva posizione neppure quando raccontava l’episodio a
capotavola del desco serale.
E
i bambini?
Venivano
controllati a vista, ad evitare che infilassero dita e mani nei
sacchi dei cereali ma poi, appena presa un po’ di confidenza,
venivano mandati a fare la spesa se la lista degli acquisti lo
permetteva.
E’
chiaro che le figlie e le nipoti delle vicine erano un’attrazione
irresistibile per me, che capitavo sempre casualmente in bottega
all’arrivo di questa o quell’altra bambina, mandata a prendere un
pacchetto di sale o una scatola di spaghetti.
E
con almeno una di queste finì a cena e oltre, vent’anni dopo, ma
il destino ci riservò altre strade; divergenti.