Il tempo passa e ritornano strani e
struggenti ricordi.
Le mucche, in italiano vacche, erano
una presenza costante e un valore aggiunto in ogni famiglia di paese.
Ma non nella mia famiglia.
Io ero figlio della Sciura Maestra e
del Sciur Geometra, anche se quest'ultimo esercitava lontano, e
quindi niente mucche, noi avevamo la 1100 Fiat, ma non è stato un
gran vantaggio, lo vedremo in seguito.
Per casa giravano anche le scolare di mia
madre e io non avevo letto Freud e le sue ipotesi sulle fasi di
latenza delle pulsioni.
A dispetto delle sue teorie (di
Freud), immaginavo comunque intempestivamente (intempestivamente sempre secondo Freud) di
sfilare loro le mutande, anche se poi non avevo alcuna idea di come
proseguire.
Ma questo non c'entra nulla.
Tutti avevano le mucche o le vacche, a
seconda della penetranza dell'italiano nel lessico famigliare, anche
se le vacche evocavano penose figure retoriche legate alla legge
Merlin, da poco in vigore.
C'era chi lavorava alla “Martinelli”
(Metallurgica GB Martinelli) e chi alla “Talea” (Setificio “La
Talea” con successive e incalzanti ridefinizioni sino a
“Luciantex”, preludio onomatopeico alla “Cassa Integrazione”
e pace), ma tutti tenevano nella stalla qualche mucca.
Stalla per lunghi anni senz'acqua
corrente, e quindi dispensatrice di contrappunti di campanacci
all'abbeverata per due volte al giorno.
E per due volte al giorno il latte
veniva conferito in capaci secchi d'alluminio alla latteria.
La zia materna, esperta conoscitrice
per logica induttiva dell'igiene alla manuale mungitura, mi mandava a
riempire il secchio del latte subito dopo il passaggio del “Cleto”
che conferiva il prodotto della mungitura vespertina alla latteria
turnaria.
Era anche un modo di uscire in strada e
incontrare qualcuno, e infatti il viaggio alla latteria aveva una
durata sensibile, ma era cosa nota e tollerata.
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