Il lavoro iniziava presto in stazione, verso le cinque del mattino, mi sembra.
Il primo “accelerato” scendeva da Sondrio a Milano
fermandosi ad ogni stazione, per entrare trionfalmente in Stazione Centrale
dopo quattro ore.
Trasportava un’umanità rassegnata e triste se misurata col
metro attuale, ma tutti più o meno si conoscevano e non c’era da preoccuparsi
del posto a sedere.
Gli studenti da Bellano scendevano a Lecco; da Dervio in su,
cioè a nord, salivano invece a Sondrio.
Fumavano di prima mattina ed estraevano dalla cartella sudice
carte con cui ingannare la mezzora di viaggio.
Ad ogni fermata saliva un gruppetto che faceva a sé.
Dalla Valtellina invece scendevano a Milano i “Corrieri”, un
mestiere dimenticato, un lavoro nero tollerato e, come il contrabbando, un
secondo lavoro per chi non era ancora stato raggiunto dal boom economico della
metà degli anni ’50.
Questa gente riempiva all’inverosimile borse e sporte di
burro, di uova, di formaggio e di verdura.
Una volta a Milano iniziava il suo giro di affezionati clienti
milanesi, ansiosi di acquistare con benevolenza e paternalismo i prodotti “nostrani” della
Valtellina.
Naturalmente a volte il troppo paternalismo veniva
ricambiato con pari moneta e sotto a mezzo centimetro di burro stava un
economico panetto di margarina.
Astuzia e ingegno acquisiti negli anni bui del mercato nero
di dieci anni prima rivivevano nei corrieri privi di scrupoli.
Ma la maggior parte era brava gente che si industriava per
pagare gli studi dei futuri geometri o ragionieri della Valtellina per i quali
sognavano un futuro radioso. Futuro radioso immaginato in qualcuna delle
società idroelettriche che spedivano al capoluogo l’energia per le sue
industrie.
E anche il 5 gennaio del 1960 erano saliti su questo
accelerato che scendeva a Milano.
Dopo le ultime fermate in Brianza il treno correva a circa 80
all’ora verso Monza.
Era la velocità massima consentita dal vecchio locomotore
costruito all’inizio degli anni ’30.
Ma sul viadotto di Viale Libertà, poco prima di Monza, c’erano
dei lavori e la velocità era limitata a 10 km all’ora.
Nessuno saprà se fu un colpo di sonno del macchinista, un
errore umano del suo secondo, oppure la nebbia tradì chi conduceva, fatto si è
che il convoglio che aveva attraversato lentamente le decine di gallerie sulla
vecchia litoranea orientale arrivò sul cavalcavia a una velocità impossibile.
Nel deragliamento che ne seguì morirono 17 persone e altre
120 rimasero ferite.
Una tragedia, presto dimenticata, che si abbattè su un’umanità
dolente che nessuno ancora chiamava pendolari.
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