Ieri ho
scritto la consueta relazione semiseria dalla trincea ai tempi del coronavirus.
Visto che si
parlava di tempi di scuola l’ho mandata su un gruppo del paese dove sono nato,
Regoledo di Cosio.
Mi rendo
conto che non ho mai fatto parte di quel tessuto sociale; quando ci passo mi guardano con curiosità malcelata.
Quasi tutti credono
che io sia del paese vicino, Morbegno, dove sono vissuto e ho lavorato a lungo:
alla fine mi sono convinto a mia volta di essere Morbegnese.
E anche a Morbegno molti ne sono convinti.
E anche a Morbegno molti ne sono convinti.
Lecco, Pescarenico |
Il mio papà
era di Lecco e questa è la città dove mi sento a mio agio, di cui parlo il
dialetto, in cui mi sento immerso, le sue strade non hanno segreti, i suoi quartieri mi sono amici, mi ci trovo come a Morbegno ma ci ho lavorato e vissuto poco.
Da qualche
anno frequento Catania, che ho amato dal primo momento, ma da cui mi dividono
la lingua e i ritmi di lavoro. Mi ci trovo a mio agio, ma non ci so nuotare.
Da un decennio
vivo a Gravedona, sul Lago.
Mi salutano
quasi tutti, il dialetto mi piace, ma percepisco una vaga indifferenza, come se
“dovessero accettarmi” perché dirigo un reparto del loro ospedale, ma se potessero
farebbero tranquillamente a meno.
Mi sento
quasi di più Laghèe in senso lato, appartenente a questo Lago che ho sempre
amato, a differenza di mio padre che era nato sulle sue rive, a Pescarenico, ma
aveva sempre preferito le montagne.
Sto bene in
Portogallo. A Lagos mi sento a casa; la lingua è difficile e ostica, ma entrare
in sintonia non è difficile; ogni tanto vado a prendere l’aperitivo e quando mi
siedo al tavolino la ragazza mi saluta come se mancassi da ieri e invece sono
passati due mesi.
E alla fine
ritorna la domanda iniziale: di dove sono?
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