20 maggio 2015

Venezia!



Pian terreno dell’Hotel Sorriso a Boario Terme,  atmosfera distillata di  Lombardia.
La figlia del proprietario, come si conviene in un hotel a conduzione famigliare, volteggia fra i tavoli  e addocisce col sorriso l’accento bresciano di consonanti durissime e dittonghi aspirati.
Al buffet della prima colazione occhieggiano brioches, che a Roma chiamano cornetti, crostate di mele, pastafrolle, improbabili plumcake preconfezionati e poco discosto un piccolo e discreto vassoio di tre o quattro “veneziane” a sfidare la globalizzazione mattiniera che cerca di infiltrarsi in Valcamonica.
Veneziane!

Pasta di brioche, forma di michetta e granella di zucchero a coprire parsimoniosamente.
Qualche fornaio ci metteva anche un po’ di uvetta, ma la “veneziana” classica era solo pasta di brioche.
Sul lungomare di Catania quando chiedo una granita antelucana prima di entrare in clinica arriva immancabile l’offerta al “professore di Como” della brioche e se abbozzo mi vedo portare una calda “veneziana” della mia infanzia, ancorchè senza granella di zucchero.
Ma il cameriere  di Ernesto non lo sa e continua a pensare che io mi commuova per le sue brioches fragranti e appena sfornate.
Dalla nostre parti, fra il Lago e la Valtellina, la veneziana era la colazione dei poveri; appena sopra la michetta di pane bianco e molto al di sotto del pan con l’uva o coi fichi; e infatti costava meno, ma sposava meglio col caffelatte o il cappuccino.
Sui treni che salivano da Milano fino a Sondrio nella mia infanzia e fino all’adoscenza, sferraglianti vecchi treni marrone scuri di vernice vecchia, ruggine e grasso grafitato, che fischiavano ad ogni passaggio a livello per avvertire o per salutare la casellante, su quei treni, ricordo, si incontrava spesso un uomo già anziano.
Prognatismo pronunciato, capelli grigi e radi, giaccone beige scuro, consunto, sorriso stampato, portava curiosamente sottobraccio un suo cesto di vimini pieno di veneziane fresche, coperte da una tovaglia.
Mia madre lo seguiva con occhio preoccupato a dissuadermi dalla tentazione di chiedere. Più tardi noi studenti pendolari  di un liceo fatiscente l’avevamo ribattezzato “Venezia” e il suo ingresso nello scompartimento era salutato con giovialità.
Rispondeva al saluto con un sorriso timido, guardando a terra.
Ma nessuno comprava le povere veneziane del cesto e il Venezia proseguiva verso lo  scompartimento successivo con il suo sorriso stampato e rassegnato.
Scendeva in attesa di qualche coincidenza alla prima stazione e ricominciava sul treno che scendeva sferragliando verso il Lago e che fischiava ad ogni passaggio a livello per avvertire o per salutare la casellante.
Non ricordo la sua voce, forse per il buon motivo di non avergli mai rivolto la parola.
Chissà di che paese venisse e dove sia sepolto.
Riposa in pace, Venezia.

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