31 luglio 2012

Alimentari, sali e tabacchi - 2


In bottega c’erano gli alimentari, ma la grande T bianca in campo nero annunciava che si trattava della gloriosa rivendita n. 4 di Sali e tabacchi, monopoli di Stato assieme al chinino.
Per il sale non c’è molto da dire, a parte il vicino panificio che giustamente ne acquistava in quantità adeguate, il resto della gente si limitava allo stretto indispensabile.
La zia usava solo sale fino anche per salare l’acqua della pasta e io mi chiedevo come mai la nonna, nell’altra casa, quella paterna, insistesse a usare il sale grosso, molto più economico.
Solo qualche decennio più tardi scoprii la storia di fame e privazioni da cui usciva mia nonna paterna, sposata a un socialista durante il ventennio funereo.
Per i tabacchi la cosa era molto più interessante.
Prima di tutto c’erano le sigarette, di tante marche di tanti pacchetti multicolori e vendute spesso sfuse.
In questi casi la zia le incartava in pezzi di carta bianca leggera e intascava i pochi spiccioli.
Ciascuno aveva le sue abitudini conosciute e spesso quindi il dialogo verteva sul tempo e le stagioni, mentre con gesti automatici la zia sceglieva il giusto pacchetto, e preparava il resto della moneta.
Poi c’erano i fumatori di pipa.
I più fumavano il tabacco “di prima” intesa come prima qualità, o “trinciato forte”, in confezioni morbide ci carta verdognola.
Per i più poveri c’era il tabacco “di seconda”, fatto con le spuntature dei toscani, in pacchetti altrettanto verdognoli ma più economici.
Qualcuno accendeva la pipa prima di uscire dalla bottega, specie nelle giornate fredde e ventose, ammorbando laria con un fumo acre e per me irrespirabile, ricevendone dalla mitica zia secchi rimproveri e inviti imperiosi ad andarsene.
E infine, decisamente più pittoreschi, gli estimatori del “toscano”.
Entravano e si facevano dare la scatola di legno, che ho gelosamente conservato, dove riposavano i lunghi sigari bitorzoluti.
Le dita stringevano delicatamente il sigaro alla ricerca dello scricchiolìo sommesso che suggeriva la giusta stagionatura del tabacco; il toscano veniva poi annusato con attenzione e il colore controllato alla luce giusta.
Talora gli uomini uscivano borbottando nel cortiletto non fidandosi della luce rossastra delle lampadine da venticinque candele.
Compiuta la scelta uscivano soddisfatti dopo aver pagato qualche spicciolo.
Il più misterioso era il “Maestro di musica”. Assolutamente silenzioso, non l’ho mai sentito parlare.
Vedovo, viveva distante con una figlia nubile epettinatrice”, altrettanto austera e che sarebbe morta giovane.
Lo vedevo passeggiare perennemente con un cappello di feltro, con le mani sempre incrociate dietro la schiena, il mezzo toscano in bocca, spento o acceso secondo le circostanze.
Come facesse a insegnare musica nel suo mutismo rimane un mistero.
Le sue sole uscite pubbliche erano durante le processioni solenni, quando camminava a fianco della banda musicale, che naturalmente suonava senza esserne diretta, sempre assorto, sempre con il cappello di feltro, sempre con le mani incrociate, togliendosi il cappello, ma non sempre il mezzo toscano, solo allingresso della chiesa.
Con passo silenzioso entrava nella bottega della zia, che gli porgeva la scatola dei toscani.
Sceglieva il suo sigaro con aria assorta e un po’ assente, poi pagava silenziosamente e usciva salutando con un cenno del capo.
Cera anche qualche bracciante talmente sudicio che non aveva il permesso di scegliere i toscani.
Nonostante le rimostranze la zia sceglieva per lui, impassibile, scegliendo il sigaro di consistenza e colore adeguati, poi lo porgeva evitando accuratamente il contatto fisico.
Dopo aver incassato il dovuto lasciava il negozio e riparava in cucina a lavarsi le mani contaminate dal contatto e dal tabacco.
Fra le donne della contrada c’erano note amicizie e inimicizie.
Le signore con provate inimicizie evitavano di arrivare in negozio contemporaneamente per evitare incontri imbarazzanti, ma qualche volta sbagliavano il tempo.
A quel punto spesso lo screzio era inevitabile e si concludeva con interminabili catilinarie dell’ultima rimasta, che non si decideva a uscire alla porta della bottega.
La zia ascoltava impassibile, con il solito sorriso enigmatico e non prendeva posizione neppure quando raccontava l’episodio a capotavola del desco serale.
E i bambini?
Venivano controllati a vista, ad evitare che infilassero dita e mani nei sacchi dei cereali ma poi, appena presa un po’ di confidenza, venivano mandati a fare la spesa se la lista degli acquisti lo permetteva.
E’ chiaro che le figlie e le nipoti delle vicine erano un’attrazione irresistibile per me, che capitavo sempre casualmente in bottega all’arrivo di questa o quell’altra bambina, mandata a prendere un pacchetto di sale o una scatola di spaghetti.
E con almeno una di queste finì a cena e oltre, vent’anni dopo, ma il destino ci riservò altre strade; divergenti.

30 luglio 2012

Alimentari, sali e tabacchi - 1


La zia, la nonna e la mamma, 1936
La zia non era sposata. Oltre ad allevare un po' di nipoti, più o meno orfani, io non lo ero, si occupava di tante cose.
Dal nonno aveva ereditato l'esattoria di un paese della costiera; poi teneva la contabilità della latteria turnaria della contrada di Masonacce e infine viveva dei proventi di una bottega di alimentari, sali e tabacchi.
Le generazioni che ci hanno seguito non sanno cosa potesse essere una bottega di alimentari poco dopo la fine della seconda guerra.
C'erano alcuni tipi di scatolette: carne, tonno, sardine, sgombri, acciughe, marmellate, pelati Cirio e fagioli.
Poi le caramelle, in alto, in grandi vasi di vetro, e cioccolati di qualità popolare per la merenda degli scolari.
Ma la parte del leone lo facevano pane, pasta, riso, farina, zucchero, crusca e caffè.
La pasta era di buona qualità, come il riso.
Il pane era di due qualità: quello del Mario, per chi voleva risparmiare, e quello del Sergio, per chi voleva trattarsi bene.
Il pane nero era per i poveri e la crusca per i conigli.
Oggi le cose cono cambiate: il pane nero è per le signore e la crusca costa molto di più della farina, infatti è riservata a matrone con l'intestino pigro, ma all'inizio degli anni '50 andava diversamente.
Farina bianca, gialla, riso e zucchero stavano in grossi sacchi dietro il bancone; frumento, mais, orzo e crusca riposavano in capaci sacchi di tela acanto alla frutta e alla verdura, in modo che i clienti potessero saggiarne la qualità direttamente con tatto e olfatto fino.
Carne e salumi si trovavano dal macellaio, il grosso e mitico Massimo, distate un centinaio di metri, verso Morbegno.
Niente latte, che si trovava nella latteria accanto. Burro e formaggi stavano in cantina.
In caso di richiesta la zia abbandonava la bottega ai clienti e scendeva con un coltellaccio a tagliare la quantità richiesta.
Ma erano richieste rare. Ciascuno aveva una stalla e produceva in proprio quello che serviva in casa e nelle case di vicini e parenti.
Le donne della contrada acquistavano quello che serviva di giorno in giorno.
Ricordo due anziane, lunghi grembiuli neri e testa coperta, che acquistavano ogni mattina mezza oncia di zucchero e una di caffè, tetragone al sistema metrico-decimale in vigore da qualche decennio.
Per i frigoriferi mancavano alcuni anni, ma le abitudini si mantenevano in buona salute.
La zia con un sorriso indecifrabile, che avrei incontrato al Louvre tanti anni dopo, pesava la merce e faceva rapidi cartocci di carta grigia.
I clienti abituali erano tutti della contrada, ma per frutta, verdura e tabacchi venivano anche dalle contrade vicine o dal centro del paese.
Che si potessero fare più di cinque-seicento metri per andare in bottega era impensabile.
La bottega era un mondo affascinante, vivace di giorno, odoroso e silenzioso di notte.
A infrangere i ritmi consueti, ripetitivi e stagionali della bottega giungevano inaspettati mendicanti, questuanti e zingari.
I mendicanti erano gente nota del paese o dei paesi vicini. Era gente che per nascita o mutilazione non poteva lavorare; quando si presentavano, con cadenza sapiente e non casuale, ricevevano invariabilmente pane, acqua e dopo contrattazione silenziosa anche un pacchetto di tabacco “di seconda”, con cui riempivano febbrilmente pipe sudice estratte da tasche dal contenuto misterioso.
I questuanti, anzi il questuante, era un frate francescano di un convento vicino a Sondrio, che arrivava un paio di volte all'anno.
Riceveva pane e qualche pacchetto di “Nazionali”, che introduceva con fare furtivo e ammiccante in un sacco di juta. Conosceva tutti e si informava di vite e morti nelle case vicine.
Il problema erano gli zingari, che mi terrorizzavano per l'aspetto e per il vestire.
La zia era intransigente e pretendeva che sigari e sigarette venissero pagati sull'unghia, poi, al momento del commiato, allungava un sacchetto con qualche pagnotta mormorando qualcosa relativa ai bambini.
La bottega ha chiuso tanti anni fa.
Nel corso dell'ultimo rinnovamento, quando arrivarono luci al neon, frigoriferi, una fiammante affettatrice e scaffali di fòrmica, mio padre salvò il bancone di noce.
Trasformato in tavolo ora è il ripiano della mia scrivania. Anche adesso, ingombro di computer, scanner e stampanti continua ad essere il confine affascinante oltre il quale c'è il mondo esterno, sempre più misterioso e incomprensibile.

27 luglio 2012

Sotto il cielo di Milano


Mr. Hyde – Ma che bella giornata che abbiamo trascorso a Milano; questa sera al ritorno ti vedo proprio soddisfatto.

Dr. Jekill – A volte mi viene una crisi d'identità: non è per caso che siamo diventati i fratelli De Rege?

Mr. Hyde – Uh, che permaloso, ho solo affermato che poteva andare peggio: il caldo non è stato terribile e ti sei girato il tuo paio d'ospedali, portando a casa anche qualche successo...

Dr. Jekill – Insomma, i caldo è stato accettabile, abbiamo mangiato decisamente bene da Commenda33.

Mr. Hyde – Sì, è vero, poi hai rivisto la tua dottoressa Longo e ti è bastato per rallegrare e completare la mattinata; però la scena nel parcheggio del S. Paolo è stata esilarante!

Dr. Jekill – Ma quale scena? Ho faticato un po' a trovare un parcheggio all'ombra, e infatti non l'ho trovato, ma avevo nel cruscotto un provvidenziale “gratta e sosta” ed è finita in gloria.

Mr. Hyde – Ma io parlo di quando ti sei sfilato t-shirt e maglietta coram populo per indossare una trionfale camicia bianca di lino.

Dr. Jekill – Che deficiente! Avrei dovuto presentarmi a un professore ordinario, nel particulare una professoressa, con una polo sudata?

Mr. Hyde – Avresti potuto cambiarti senza mostrare i (cadenti) pettorali nel bagno dell'Ikea, che è a un tiro di schioppo.

Dr. Jekill – Insomma non ti va bene nulla, non vedi la trave ma cerchi la pagliuzza.

Mr. Hyde – Oddìo, è vero che in questi giorni il caldo di Milano è soffocante; alla canicola si è aggiunto lo scandalo del governatore che divampa...

Dr. Jekill – Attento che Formigoni ha minacciato di querelare chiunque si permetta di fare insinuazioni.

Mr. Hyde – Formigoni, insinuazioni, e prima Berlusconi, insomma sempre cogli “oni” sotto il cielo di Milano. E poi minacciano queroni, ehm, volevo dire querele!

Dr. Jekill – Torniamo sul lago che è meglio. Vedi di non addormentarti in autostrada che poi son cazzi, mazzi, tric e trac.

25 luglio 2012

I corrieri


Il lavoro iniziava presto in stazione, verso le cinque del mattino, mi sembra.
Il primo “accelerato” scendeva da Sondrio a Milano fermandosi ad ogni stazione, per entrare trionfalmente in Stazione Centrale dopo quattro ore.
Trasportava un’umanità rassegnata e triste se misurata col metro attuale, ma tutti più o meno si conoscevano e non c’era da preoccuparsi del posto a sedere.
Gli studenti da Bellano scendevano a Lecco; da Dervio in su, cioè a nord, salivano invece a Sondrio.
Fumavano di prima mattina ed estraevano dalla cartella sudice carte con cui ingannare la mezzora di viaggio.
Ad ogni fermata saliva un gruppetto che faceva a sé.
Dalla Valtellina invece scendevano a Milano i “Corrieri”, un mestiere dimenticato, un lavoro nero tollerato e, come il contrabbando, un secondo lavoro per chi non era ancora stato raggiunto dal boom economico della metà degli anni ’50.
Questa gente riempiva all’inverosimile borse e sporte di burro, di uova, di formaggio e di verdura.
Una volta a Milano iniziava il suo giro di affezionati clienti milanesi, ansiosi di acquistare con benevolenza e  paternalismo i prodotti “nostrani” della Valtellina.
Naturalmente a volte il troppo paternalismo veniva ricambiato con pari moneta e sotto a mezzo centimetro di burro stava un economico panetto di margarina.
Astuzia e ingegno acquisiti negli anni bui del mercato nero di dieci anni prima rivivevano nei corrieri privi di scrupoli.
Ma la maggior parte era brava gente che si industriava per pagare gli studi dei futuri geometri o ragionieri della Valtellina per i quali sognavano un futuro radioso. Futuro radioso immaginato in qualcuna delle società idroelettriche che spedivano al capoluogo l’energia per le sue industrie.
E anche il 5 gennaio del 1960 erano saliti su questo accelerato che scendeva a Milano.
Dopo le ultime fermate in Brianza il treno correva a circa 80 all’ora verso Monza.
Era la velocità massima consentita dal vecchio locomotore costruito all’inizio degli anni ’30.
Ma sul viadotto di Viale Libertà, poco prima di Monza, c’erano dei lavori e la velocità era limitata a 10 km all’ora.
Nessuno saprà se fu un colpo di sonno del macchinista, un errore umano del suo secondo, oppure la nebbia tradì chi conduceva, fatto si è che il convoglio che aveva attraversato lentamente le decine di gallerie sulla vecchia litoranea orientale arrivò sul cavalcavia a una velocità impossibile.
Nel deragliamento che ne seguì morirono 17 persone e altre 120 rimasero ferite.
Una tragedia, presto dimenticata, che si abbattè su un’umanità dolente che nessuno ancora chiamava pendolari.

Arrivi a partenze, con qualche lacrima di giusta commozione

Quasi tutta la Pediatria di Gravedona con qualche infiltrazione di Ostetricia e Ginecologia, insomma il glorioso DMI (Dipartimento Materno Infantile) ha festeggiato la partenza di Roberta e Michela e l'arrivo di Valentina e Martina.
In prima fila da sinistra: Valentina, Martina, Gianluca, Mina, Pino, Denise, Daniela, Concettina, Marzia, Claudia, Anita, Michela, Alfredo, Katia, Roberta, Simona, Sofia, Dada - In seconda fila in alto: Paolo, Tania ed Elena

23 luglio 2012

Palle ferroviarie e mobilità federale


Negli anni dopo la seconda guerra mondiale in Italia sono state fatte alcune scelte politiche e alcune scelte strategiche nel campo dei trasporti.
In Germania e in Francia ma anche in altri paesi dell'Europa occidentale si sono ricostruite le ferrovie e si è dato grande incentivo al trasporto fluviale.
L'America non fa testo; noi copiamo solo se scemenze; per il resto è di moda disprezzare l'America, soprattutto gli USA, il Canada è già più tollerabile.
Il trasporto delle merci su ferro e attraverso fiumi e canali è molto conveniente.
In Italia invece, lungimiranti, abbiamo privilegiato il trasporto su gomma a partire dagli anni '50 del secolo scorso.
Il gruppo Fiat ha incassato tutto senza ringraziare e ha creato un bel po' di posti di lavoro, concordati naturalmente con i sindacati, che ogni tanto facevano finta di giocare alla guerra.
Chiatta sul Danubio
Operai, studenti, pendolari in genere e qualche impiegato, hanno viaggiato sino agli anni ottanta del ventesimo secolo su convogli ferroviari la cui età media era di mezzo secolo, e anche di più.
Quasi tutte le merci viaggiavano su gomma, su una rete di autostrade comunque inadeguata allo sviluppo selvaggio del mercato automobilistico.
Nel ventunesimo secolo, epoca multimediale in cui le balle teletrasmesse vengono regolarmente smentite su internet, abbiamo scoperto che la nostra politica dei trasporti non è al passo, anzi è divergente, rispetto al resto dell'Europa e dei paesi occidentali.
Ora si cerca di correre ai ripari ristrutturando la rete ferroviaria, creando quache centinaio di metri di piste ciclabili, investendo in “mobilità sostenibile”, concetto che riempie la bocca di amministratori avveduti e politicamente corretti.
Poi leggo che si contesta la Tav perchè sarebbe meglio investire nelle ferrovie locali.
E tutta questa gente dov'era quando si favoriva sfacciatamente il trasporto su gomma? Forse la politica dei trasporti, soprattutto da “sinistra” la si sarebbe dovuta contestare nel secolo scorso.
Mi sembra la storia di quei marinai che avversavano le navi a vapore temendo che l'abbandono della navigazione a vela avrebbe ridotto i posti di avoro dei marittimi.
Era una leggenda metropolitana? Può darsi, ma qui c'è gente disposta a contestare tutto e tutti aprioristicamente. Siamo un popolo che vive di mode: no alla guerra, sì la federalismo, no alla Tav, sì alla cura Di Bella, no a Berlusconi, sì a Bossi, evviva Grillo, abbasso Craxi. E un momento dopo l'esatto contrario, dietro a un'altra bandiera. Conosco un pirla in una provincia confinante che vent'anni fa era un sindaco comunista; oggi è ancora sindaco, ma leghista. Accorperà due comuni e riuscirà a farsi eleggere borgomastro "grillino" per altre due legislature.
E qui ci fermiamo, sennò un giorno o l'altro mi sparano perchè sono un qualunquista.

20 luglio 2012

Le mucche – 2


I casari erano gente rude. Dormivano poche ore perchè verso le tre di notte iniziavano la scrematura, donde il burro, e la caseificazione, donde il formaggio “di latteria”, da non confondere con quello, molto più pregiato “d'alpe”.
Qualche casaro durante il lavoro aveva il vizio di cantare, con grande disappunto di chi abitava vicino alla latteria.
Erano tempi in cui i rumori erano considerati molesti.
Molesti al punto che un vicino irascibile, il Giuanin, una notte era uscito inferocito con il fucile da caccia e aveva sparato contro la finestra della latteria.
Era stato uno sparo dimostrativo, da distanza ragionata e la gragnuola di pallini aveva solo crepitato sui vetri.
Ma era stata una prova di forza convincente e il casaro si era rassegnato a caseificare in sostanziale silenzio per tutto l'inverno.
Ma il giorno si allungava. Da aprile a maggio dopo il crepuscolo si respirava un'aria di erba fresca, di campagna al risveglio, che giungeva a compimento nel mese dedicato alla Madonna e alle sue devozioni, cui eravamo sensibili almeno quanto le coetanee, anche se poi si restava fuori dalla chiesa ad evitare l'affollamento e si preferiva la successiva, reiterata, proterva, indaginosa e laboriosa ricerca dell'itinerario più lungo per tornare a casa, anche questa cosa nota e tollerata con malcelata benevolenza.
Ma proprio alla fine del mese di maggio si chiudevano inesorabilmente sia le devozioni mariane sia la latteria turnaria.
I solstizio d'estate ci trovava alla ricerca spasmodica di un buon motivo per restare in giro “per strada” dopo cena, alla ricerca di frettolose quanto caste effusioni con le morigerate adolescenti del tempo.
C'era chi prediligeva prati e chi boschetti ripariali. Personalmente amavo le case in costruzione, meno romantiche ma sempre asciutte anche col maltempo e per nulla frequentate.
Ma torniamo alle nostre mucche e alla chiusura delle latterie.
Le vacche salivano in alpeggio, almeno quelle che non avevano già asceso i maggenghi.
Il concerto dei campanacci arrivava improvviso in ora antelucana.
Il contrappunto erano le grida dei pastori, molti improvvisati, che spingevano a fatica le bestie verso i sentieri.
Oggi percorriamo mulattiere e sentieri senza sentimento se non quello dell'inventarci un trekking da una valle all'altra.
Non sono la stessa cosa.
La mulattiera era un sentiero per muli, bestie da soma, dove la pendenza doveva essere costante, con spazi per i mulattieri e fondo lastricato a piccola pietra, adatto a bestie ferrate.
Il sentiero per l'alpeggio era spesso sterrato per bestie senza ferri, desuete alla salita, e quindi con necessari tratti pianeggianti e punti d'abbeverata frequenti.
Sbagliare strada voleva dire problemi inenarrabili con bestie d'altri; mucche che prendevano l'abbrivio, scivolando e precipitando dove capitava.
Niente da dire, le mucche segnavano le nostre stagioni.

19 luglio 2012

Le mucche - 1


Il tempo passa e ritornano strani e struggenti ricordi.
Le mucche, in italiano vacche, erano una presenza costante e un valore aggiunto in ogni famiglia di paese.
Ma non nella mia famiglia.
Io ero figlio della Sciura Maestra e del Sciur Geometra, anche se quest'ultimo esercitava lontano, e quindi niente mucche, noi avevamo la 1100 Fiat, ma non è stato un gran vantaggio, lo vedremo in seguito.
Per casa giravano anche le scolare di mia madre e io non avevo letto Freud e le sue ipotesi sulle fasi di latenza delle pulsioni.
A dispetto delle sue teorie (di Freud), immaginavo comunque intempestivamente (intempestivamente sempre secondo Freud) di sfilare loro le mutande, anche se poi non avevo alcuna idea di come proseguire.
Ma questo non c'entra nulla.
Tutti avevano le mucche o le vacche, a seconda della penetranza dell'italiano nel lessico famigliare, anche se le vacche evocavano penose figure retoriche legate alla legge Merlin, da poco in vigore.
C'era chi lavorava alla “Martinelli” (Metallurgica GB Martinelli) e chi alla “Talea” (Setificio “La Talea” con successive e incalzanti ridefinizioni sino a “Luciantex”, preludio onomatopeico alla “Cassa Integrazione” e pace), ma tutti tenevano nella stalla qualche mucca.
Stalla per lunghi anni senz'acqua corrente, e quindi dispensatrice di contrappunti di campanacci all'abbeverata per due volte al giorno.
E per due volte al giorno il latte veniva conferito in capaci secchi d'alluminio alla latteria.
La zia materna, esperta conoscitrice per logica induttiva dell'igiene alla manuale mungitura, mi mandava a riempire il secchio del latte subito dopo il passaggio del “Cleto” che conferiva il prodotto della mungitura vespertina alla latteria turnaria.
Era anche un modo di uscire in strada e incontrare qualcuno, e infatti il viaggio alla latteria aveva una durata sensibile, ma era cosa nota e tollerata.

Sono invecchiato!


Indubitabilmente sono invecchiato.
Fino a due giorni fa avevo sessant'anni e ora ne ho sessantuno.
Qualcuno contraddice, e afferma: ma come? Sei il più tecnologico dei medici di quasi tutto l'ospedale, viaggi con Ipad e smartphone, usi dropbox e hai messo un gps anche sulla bicicletta, consulti e aggiorni le linee-guida su internet, usi l'apple probe per l'ecografia dell'addome...
Non è vero, sto invecchiando.
Mi offendono troppe cose che scorrono come acqua dai rubinetti. Io sono dei tempi che l'acqua corrente non c'era in tutte le case.
Così mi offende se nessuno cede il passo a una porta, se nessuno si alza quando entra una donna, se nessuno parla sottovoce quando parlo al telefono, se nessuno bussa entrando in sala medica o nelle camere.
Eppure tutte queste cose le faccio per primo, cerco di usare l'esempio, visto che la fisica dei vasi comunicanti è stata sovvertita.
E al mio compleanno? Ho ricevuto gli auguri da tutti, ma proprio da tutti, soprattutto dalle persone a cui ho dato poco e che avrebbero meritato di più. Chi presto e chi tardi, chi in anticipo e chi in ritardo, ma mi hanno commosso...
E quelli che mi chiamano solo quando ne hanno bisogno? Quelli che hanno giurato amore e fedeltà? Forse sono alla selezione per la trasmissione “Chi l'ha visto?” e non hanno trovato il tempo per mandare gli auguri.

17 luglio 2012

61


1977
61 anni! Un tempo si andava in pensione molto prima. Onestamente molto meglio così come oggi.
Un collega vantava di aver meritato la pensione dopo vent'anni di onesto lavoro... ; non so se il mio è stato onesto, ma sono trentacinque.
2012
Un po' di bilancio e di retorica me li concederete su questo blog che da quindici è passato a 25 lettori, con buona pace di chi mi esortava in modo anonimo a vergognarmi del livello raggiunto.
Dunque trentacinque anni, tanta è la distanza fra le due fotografie: non è cambiato quasi nulla.
La vita privata si evolve, ma deve restare privata.
Quasi ogni mattina entro in ospedale, l'entusiasmo è lo stesso, sono cambiati i portinai, ma mi sorridono sempre, a Verona, come a Sondrio, a Morbegno, a Gravedona e a Catania.
Erano un po' più freddini a Lecco e a Genova.
Quando ho iniziato in qualche reparto si sterilizzavano aghi e siringhe nell'autoclave e si riciclavano i cateteri vescicali.
Oggi c'è ancora chi rema contro l'appropriatezza e la qualità percepita borbottando che “si è sempre fatto così”, un ritornello che a Sondrio mi risuonava come certe canzoni di Orietta Berti alla radio degli anni '60.
Trent'anni fa davo del “lei” ai portieri e del “tu” alle infermiere.
Oggi do del ”lei” a quasi tutti, ma do del “tu” a molti professori d'università.
Tanti anni fa i pazienti mi volevano bene e qualche collega invidioso mi detestava.
Oggi è la stessa cosa, ma sono tutti molti di più.
Due/tre colleghi mi hanno fatto una guerra spietata, invidiosi e cattivi. La vita ne ha fatto giustizia, ormai.
Il pensiero è sempre per tutti quei bambini che ho accompagnato nell'ultimo viaggio e che spero continuino ad essermi maestri.

14 luglio 2012

Popolo bue e popolo sovrano


Dr. Jekill – Ciao Mr., come va? Un sabato simpatico, anche se il tempo qui sul Lago non sembra dei migliori, ma è pur sempre quasi un giorno di riposo.

Mr. Hyde – Bada di non iniziare una delle tue tirate infarcite di millibar, gradi centigradi, vento e sua velocità in nodi all'ora, che poi equivalgono a miglia marine, non proprio ma quasi, e trend pressori e se mai sia il caso di prendersi un'ombrella uscendo di casa.

Dr. Jekill – Solito disfattista! No, no, non parliamo del tempo. Oggi il popolo sovrano ha diritto di godersi il meritato riposo dopo una settimana di lavoro e caldo infuocato.

Mr. Hyde – Popolo sovrano? Popolo bue vorrai dire. Hai notato che tutti i tedeschi che hai incontrato in questa tua passeggiata mattutina con la bella bestia ti hanno salutato con un sorriso? Il cane suscita simpatia. Tutti gli italiani si son ben guardati dal salutare, popolo di maleducati ed ignoranti: popolo bue!

Dr. Jekill – Ma no, bisogna capirli. Qui ci sarebbe l'obbligo di tenere i cani al guinzaglio, ma questi si portano i loro cagnetti liberi e festanti. Quando mi incontrano con la Dolly sono costretti a legarli: la signorina non ama essere corteggiata né, peggio, annusata nelle sue parti più intime.

Mr. Hyde – Questo infatti limita la libertà popolare. Che diritto hai tu di portare in giro un cane così grosso che poi li obbliga ad ottemperare alla più elementari norme di buon senso ed educazione?

Dr. Jekill – Ma la mia è al guinzaglio...

Mr. Hyde – Appunto, non devi farti rispettare, ma devi solo rispettare questa gente, che fra l'altro costituisce il popolo sovrano, sancito dalla Costituzione.

Dr. Jekill – E infatti mi scuso se porto in giro un cane grosso, ma credo che tutti rispettiamo in fondo questo popolo sovrano.

Mr. Hyde – A parte quando lo considerano popolo bue, come agli inizi degli anni '90...

Dr. Jekill – Perchè? Cos'era successo? Era stato Bettino Craxi?

Mr. Hyde – Ma quale Craxi! Dalle ceneri del PCI era nata la Quercia e verso il 1993, mi sembra, dal simbolo della Quercia erano stati tolti falce e martello! Bel rispetto per il popolo bue, come se non si sapesse da che parte venivano e quanto avessero sputato sul tricolore per trent'anni...

Dr. Jekill – E infatti la lezione è stata perfettamente recepita, i Comunisti sono sempre stati capiscuola. Ieri dal simbolo della Lega è stato cancellato il nome di Bossi, così il popolo sovrano saprà che è stata voltata pagina definitivamente.

Mr. Hyde - E infatti basta corna celtiche, rutti, dito medio e va' pensiero all' apologia dell'erezione!

Dr. Jekill – Beh, nell'estrema sinistra, negli anni '70 qualcuno aveva affermato che la virilità fosse un mito fascista, forse memori... , per controbilanciare il celomollismo è nato il celodurismo, tutto qui.

Mr. Hyde – Ma la notizia più bella è che il Berlusca si candida ancora, come a dire che il popolo è proprio bue e dovrebbe votarlo, non avrebbe imparato ancora la lezione.

Dr. Jekill – Beh, che il popolo abbia capito tutto qualche dubbio ce l'avevo: dopo aver votato per vent'anni Bossi, Prodi e Berlusconi, ora che i nodi vengono al pettine se la prendono con Monti e la Fornero.

Mr. Hyde – Spiritoso! I nodi ci sono sempre stati, solo che venivano al petting, così si esorcizzava un po'. Ma meglio così, almeno una volta per tutte nel 2013 sapremo finalmente se esistono veramente la Padagna e il popolo d'Itaglia...

Dr. Jekill – Per ora il popolo è ancora sovrano; viva l'Italia e il tricolore!

Mr. Hyde – E tieni legata la Dolly, va là!

12 luglio 2012

Colazione di lavoro, 12 luglio 2012


Ristorante tranquillo. Conoscenza iniziata sulla gialla Guida Slow Food e proseguita durante innumerevoli colazioni e cene di lavoro.
Stiamo in riva al fiume che scorre pigro; ogni tanto un tafano supera il tecnologico impianto di interdizione aerea e colpisce proditorio ma con discrezione, scegliendo oculatamente le prede che mostrano sapientemente cosce e spalle.
Ma sostanzialmente si sta bene.
Mentre nel resto dell'Italia si impreca a Caronte qui spira la Breva e stimola l'appetito.
Ho scelto un antipasto di lago, luccio cotto a vapore con cipolle, e un primo piatto più fantasioso dove la fanno da padrone due scampi.
Discutiamo pigramente di un congresso a cui mancano due mesi, preventivando arrivi di relatori e viaggi a Malpensa ad accoglierli e ad accomiatarcene.
Al tavolo vicino un papà tenta di pranzare con un figliuolo di due anni circa, stima di pediatra, e due nonni, verosimilmente paterni.
Manca la mamma.
Il piccolo non mangia, non mangia e non vuole mangiare. Naturalmente, protervo e accigliato, non vuole neppure che gli altri mangino.
Mentre in nonno sorride accodiscendente e un po' ebete, il pargolo si scatena in corse sfrenate sull'impiantito.
Nonna e padre lo rincorrono a turno mentre il piccolo trilla per la gioia dei timpani e dei coglioni degli altri avventori.
A volte inciampa e i trilli si mutano in strilli. L'effetto globalizzante su timpani e coglioni non cambia significativamente.
La cameriera a tratti mi guarda disperata, ma io ho fatto giuramento ad Ippocrate e sono pediatra tutto d'un pezzo; abbozzo.
Arriviamo quasi contemporaneamente al caffè. Io non ne bevo.
Il padre affranto cerca di berne mentre il piccolo tenta ti togliergli la tazzina dalla bocca.
Alla fine cede e offre il caffè alla piccola belva.
E' l'unica cosa che la peste ha assaggiato dall'inizio del pranzo.
Il mio convitato mi chiede se proprio la pillola abbia tutti questi effetti collaterali e io non rispondo; medito sulle figure storiche di Erode e Onan, troppo presto screditate da un giudizio affrettato.

11 luglio 2012

Linate, 10 luglio 2012


La costa siciliana scompare nella foschia e nella luce accecante di questo tramonto d'estate mentre quest' aereo vira sull'Etna e si avventa sulle Eolie verso Roma.
...nella foschia e nella luce accecante...
Un altro viaggio, un altro ritorno, ma non so più quale sia fuga, quale rifugio, quale ritorno.
Quel che è certo è che non ho ancora dato fondo ai progetti nè alle speranze e non so più cosa sia progetto, cosa appiglio e cosa speranza.
Fiumicino è rutilante, formicaio impazzito di gente che, come me, teme di non prendere più coincidenza.
E infatti sono l'ultimo a salire sul fiammante bimotore brasiliano che mi porterà a Milano.
Per finire a Linate.
L'avvicinamento é suggestivo, ti sembra di entrare dentro Milano, un po' come arrivare al vecchio aeroporto di Tegel a Berlino, ai tempi del muro e dei Russi.
Berlino brillava da lontano mentre si sorvolava la buia e lugubre Germania comunista.
Poi però a Milano cambia.
Agli arrivi c'è ancora un po' di gente; al piano delle partenze di sera Linate è triste e buia come stazione ferroviaria. Dopo le 21 chiudono i negozi, poi i bar, poi rimane qualche questurino che si attarda nell' atrio deserto e credi di essere fuori tempo per tutto.
Questa sera all'uscita tre, aspettando lo shuttle del parcheggio, altre quattro o cinque persone in attesa di altri shuttle. Sciamano sollevati.
Qualche operaio fa sferragliare un improbabile carrello per tracciare una segnaletica di divieti.
Poi, seduta su un giallo panettone di cemento, smartphone economico ma giusto per darsi un contegno, una giovane donna; bella; gonna troppo corta e sandali di cattivo gusto, aspetta un uomo, fidanzato, marito o padre, che la porti lontano dalla pioviggine.