25 dicembre 2012

Buon Natale 2012

Santo Natale, una delle ultime cose rimaste Sante, per tradizione e forse per necessità.
Noi tutti, anche chi è laico, abbiamo bisogno di un giorno di pace, anche se non tutti i giorni sappiamo essere uomini di buona volontà.
Non faccio eccezione.
In questo giorno di pace il mio pensiero va ai bambini che in tanti anni ho cercato di accompagnare nell'ultimo viaggio verso la Luce, e alle loro famiglie.
Non è mai stato facile, ma ha dato un senso ai miei giorni.
Poi il pensiero va agli amici, ai colleghi, Pino, Cristiana, Denise, Giusy, Maria Rita, Concetta, e ai giovani pediatri in formazione, Stefania, Marco, Maddalena, Valentina, Roberta, e tutti gli altri specializzandi, alle infermiere, alle ostetriche, ma sono così tanti che non posso nominarli tutti insieme, eppure condividono la mia visione della vita e della scienza inesatta accanto alla quale camminiamo o abbiamo camminato per qualche tempo.
Sono tanti e a tutti penso con gratitudine, ma il cuore è ora per Raffaele, fratello più che amico, che nell'anno passato insieme mi ha arricchito con la sua amicizia.
E come non ricordare Lorenzo Pavone, un maestro della Pediatria Italiana, e le nostre cene sulle pendici dell'Etna...
E tutti gli amici siciliani e la loro ospitalità...
Poi last but not least c'è un augurio per amici e amiche, per chi mi stima, per chi mi vive vicino, ma anche per chi mi ha frainteso; e anche per chi non conosce (o non capisce) la solitudine del dubbio quotidiano.
Buon Natale!

23 dicembre 2012

Storia di uno smartphone e del bambino che gli insegnò a nuotare

Dopo sette giorni trascorsi fra mercatini e terme, fra Foresta Nera e Alsazia, fra pioggia scrosciante e pioggerella insistente, finalmente si torna in Italia.
Dopo una decina di chilometri decido per una pizza. Non è una pizzeria eccezionale, ma si beve una bella birra rossa artigianale che fanno sul Lago e ha il nome di un battello glorioso: il Plinio.
Birra robusta, fresca, con un retro persistente di liquirizia.
Due tavoli discosto stanno due coppie e un bambino di diciotto mesi, così a spanne. Il bimbo vorrebbe giocare o almeno parlare. Niente da fare; se lo sono portato in pizzeria senza un gioco, senza un quaderno, senza nulla; ma il frutto del concepimento pretende un suo spazio.
Piange, stride, si dimena, lancia strilli al limite dell'ultrasonoro; forse basterebbe parlarci un po' assieme, magari facendo la vocina leziosa, o con i verbi all'infinito come si fa con i neri, anche se sono ingegneri.
I genitori, chiacchierano imperterriti con l'altra coppia, altrettanto giovane ma a suo tempo più attenta al controllo delle nascite.
La mamma, spazientita, offre al piccolo un cellulare sperando che si quieti.
Ma a diciotto mesi, peraltro portati bene, uno smartphone Samsung quadribanda non suscita grande interesse.
La mamma insiste e il piccolo prima si mette il telefono in testa, poi se lo getta alle spalle, e infine lo butta.
La mamma paziente lo raccoglie, riprende a chiacchierare, poi con un lampo di genio attiva una suoneria new age e offre il nuovo gioco al piccolo.
Il bimbo non è privo di fantasia e con mossa fulminea infila lo smartphone nella caraffa di rosso della casa, un po' troppo tannico anche per il Samsung, che ammutolisce all'istante.
Il seguito è divertente come una danza della pioggia senza zagaglie.
Son certo che domani la signora si prenderà un nuovo telefono di ultima generazione, potrebbe provare con un Iphone 5.
Speriamo che nelle notti a venire faccia progressi anche in campo anticoncezionale e rinunci a concepire un secondo infelice.

22 dicembre 2012

Viaggio in Germania – 3

Il coperchio di ferro brunito dal calore e dagli anni si apre cigolando. La caldera mostra il suo contenuto di pietre roventi.
Un grosso ramaiolo, con scricchiolii sinistri, spinto da un braccio meccanico rovente, si solleva lentamente e sfrigola litri d’acqua sulle pietre.
Per due volte assistiamo attoniti al rituale infernale, poi sempre cigolando tutto si richiude e torna la penombra.
Non siamo alla porta di servizio dell’inferno, ma solo alla penultima sauna delle terme di Baden Baden e ci stiamo crogiolando a 85 gradi contando il tempo che ci separa, dopo almeno dieci canonici minuti, dall'ebbrezza di buttarci nudi sotto l’acqua di una doccia gelida.
Il percorso è cominciato due piani sotto.
E’ cominciato con le terme tiepide e accattivanti che dispensano benessere e sollievo su cinque vasche, tre al coperto e due all’aperto, fumiganti di vapori nell’inverno decembrino del Baden Wurtemberg.
Coppie giovani e mature, singles d’ambo i sessi in cerca di consolazione galleggiano beati oppure si torcono in smorfie tragicomiche sotto i getti d’acqua termale, o ancora gemono nel bagno turco sognando docce tiepide.
Poi si sale al piano superiore. Si devono gettare costumi e accappatoi per officiare, nudi, il mistero della sauna.
Qui di gente ce n’è molta di meno. L’esposizione degli attributi con le varianti glabre, pelose o fifty fifty richiede una scanzonata elasticità mentale.
Superato il disagio dell’introibo tutto appare abbastanza semplice e si veleggia da una sauna all’acqua di rose attorno ai sessanta gradi a soste ragionate nelle vere saune a 85 e 90 gradi per finire nell’inferno dei 95 gradi centigradi.
Fra una stazione e l’altra sarebbe d’uopo un doccia scozzese, o almeno tiepida, e qualche minuto nelle vasche dell’acqua fredda, ma a qualcuno difetta il coraggio.
Per chi ha superato in qualche modo la sequenza delle saune rimane l’ultima prova.
Si esce all’aperto e si attraversa, preferibilmente nudi, un boschetto di tigli e betulle,salendo verso le due ultime stazioni.
E qui siamo arrivati alla temibile caldera che ogni mezz’ora si apre per mostrare le sue pietre roventi a chi l'ha meritato.
Guardo l’orologio sulla parete. Son passati quindici minuti. Mi butto con sollievo sotto la doccia gelida.
Sono solo sessanta secondi. Quando le mani gelate del getto iniziano a dolere la doccia termina con altrettanto sollievo.
Con passo deciso mi avvio verso l’ultima stazione: sauna con fuoco di pino finlandese a 95 gradi per almeno dieci minuti.
All’interno alcuni temerari stanno gemendo e sognando l’ultima doccia gelida.
Poi pausa di qualche minuto nella Jacuzzi a 38 gradi e si ricomincia.

21 dicembre 2012

Viaggio in Germania - 2

Natale a Speyer
Lunghe file di autocarri procedono nella pioggia lungo l'autostrada che a tratti costeggia il Reno.
Lunghe file di scintillanti station-wagon, berlinotte e suv li sorpassano.
Dappertutto c'è gente che lavora, che pulisce, che aspira canalette e che costruisce.
All'orizzonte centri commerciali e torri scintillanti. La Germania, niente da eccepire, dà un senso di benessere immanente.
I treni corrono lucidi, puliti e in orario, per strada non ci sono cartacce e i padroni raccolgono la cacca dei cani anche la sera tardi, quando nessuno li osserva.
La ricetta è come la nostra: lavorano (come noi), pagano le tasse (meno di noi), tollerano gli extra-comunitari (non appendono crocefissi nelle aule, ma li costringono a rispettare la loro cultura), si divertono al sabato sera (come noi, però si ammazzano di meno).
Due cose sono diverse: la prima è che raccogliendo la spazzatura ci campa (bene) solo il netturbino, e non anche l'amministratore del comune che l'ha assunto o il suo protettore del momento.
La seconda è che la cosa pubblica è rispettata, quindi il treno non è sporco e il giardino pubblico non viene calpestato.
Da noi si impreca per le tasse di raccolta dei rifiuti poi si getta per terra qualsiasi mozzicone; un po' come il gatto (coglione) che si diverte a mordersi la coda e poi si arrabbia.

19 dicembre 2012

La mia Germania - 1

Ci sono stato per la prima volta alla fine degli anni '50.
Alcuni lampi della memoria.
Munchen, Ulm e Stuttgard con la sua torre delle televisione a grdare al mondo che la Germania era rinata nuova e bella dalle sue ceneri.
Berchtesgaden sull'Obersalzberg, il “nido dell'aquila”, la casa di vacanza di Hitler. I prati erano ancora minati e soldati americani proseguivano la bonifica svogliati. Forse erano stati mandati lì in punizione per qualche cassa di birra e qualche rissa di troppo in libera uscita dalle caserme.
Le autostrade erano pavimentate con lastre di calcestruzzo e le gomme schiaffeggiavano ritmicamente ogni giunto, come percorrendo un ponte senza fine.
Lunghe file di Volksvagen smunte, di Opel grigie, qualche esotica Borgward, le Taunus che scimmiottavano le cugine ricche di Detroit salivano e scendevano lungo il Reno.
La Ruhr ribolliva di ciminiere e stabilimenti che sovrastavano l'autostrada.
Un sole velato dalla caligine di mille miniere di carbone ci accompagnava verso Amburgo.
Treni neri di locomotive a vapore o grigi di locomotive diesel affumicate trainavano lunghissimi e lenti treni merci sulle rive del grande fiume.
Qualche Porsche bianca a verde della polizia chiedeva strada con la sirena a due toni, un clakson in falsetto per non rievocare le lugubri sirene a fischio che fino a pochi anni prima annunciavano fuoco e morte dal cielo.
I miei genitori non parlavano tedesco né inglese ed era una tragedia in ogni ristorante. Chiedevano una bistecca ed ecco il goulasch; un consommè compariva la posto di una zuppa; la birra non era un problema e giunoniche cameriere con reggiseni antisommossa reggevano cinque boccali da una pinta in ogni mano.
Al porto di Amburgo era arrivata una zuppa di anguille gnocchi e prugne cotte, divertente per me, ma raccapricciante per i miei benpensanti genitori.
E non era nulla in confronto a quello che avrebbero patito in Scandinavia.
Io me la ridevo e vent'anni dopo avrei scoperto che cibandosi di aringhe marinate, salmone, cipolle e cetrioli si sarebbe potuto attraversare tutta l'Europa del nord con due soldi, birra compresa.
Questa Germania del dopoguerra riemerse in tutta la sua poesia all'inizio degli anni '90.
Attraversando quella che era stato l'inferno della “Repubblica Democratica Tedesca” per qualche anno sembrò che a Magdeburgo si fosse ancora alla fine degli anni '50.
Rividi il cielo livido di caligine, i treni a vapore, le auto scolorite.
Non c'erano più i miei genitori, e proprio oggi sono undici anni che nonna Maria ci ha lasciato.

18 dicembre 2012

La mia Svizzera

Ho sempre viaggiato molto, in assoluto e in proporzione.
Dopo i cinque anni i miei genitori hanno deciso che li avrei seguiti nei loro viaggi in Europa.
Così fino ai sedici anni mi sono aggregato e ho conosciuto, all'alba degli anni sessanta, Svizzera, Germania, Francia, Danimarca, Austria, Svezia e Jugoslavia.
Poi è venuta la passione per la formula 1, ma era già ai tempi dell'università e viaggiavo da solo o con chi mi capitava, quasi sempre maschietti purtroppo, e ho rivisto Francia e Germania, aggiungendo Olanda e Belgio.
Poi ho iniziato a viaggiare più lontano.
Ho conosciuto la tristezza infinita dei paesi comunisti, la povertà assoluta delle favelas, la desolazione di Sarajevo, la serenità del sud-est asiatico, gli orizzonti degli States sul Pacifico.
Ma il primo amore non si scorda mai e c'è sempre un po' di emozione quando attraverso la Svizzera.
Era un faro di civiltà e mi veniva additata come la società del futuro: democratica, educata, multietnica, ricca.
I prezzi erano convenienti e ci ho passato diversi fine settimana.
Autogrill svizzero
Senza autostrade, da un passo alpino all'altro, interminabili viaggi con migliaia di curve e tanti prati, tante vigne, tante mucche frisone e pezzate.
Grandi laghi d'acqua dolce e gelida, solcati da battelli bianchi con grandi bandiere rosse con la croce bianca.
Tanti ristoranti senza pastasciutta con enormi bistecche e patate due volte al giorno.
Tante bibite dal sapore strano, sempre un po' metallico e meno dolce della nostra aranciata Sanpellegrino nazional-popolare.
Tanta birra sui tavoli, tanto burro salato, salumi secchi e frutta smagliante senza sapore.
Verdure cotte e patate due volte al giorno.
Un cerimoniale complesso per chiedere il sale, evitare i gomiti sul tavolo e forbirsi la bocca prima di bere e dopo aver bevuto a tavola con gli occhi degli adulti che approvavano compunti e indulgenti.
Bandiere rosse con la croce bianca davanti a ogni casa, assieme a tanti gerani e ombrelloni in riva ai laghi.
Bagni puliti, caldi, odore di disinfettante che avrebbe dovuto essere profumato e musica classica durante la prima colazione.
Poi la globalizzazione è arrivata anche in Svizzera.
La buona e rigorosa educazione mostra qualche smagliatura; per le strade si sente episodicamente strombazzare, orrore!
Qualcuno sgomma come a Milano e i poliziotti non sono più così intransigenti.
Nei ristoranti i prezzi sono alle stelle; ora ci sono comode autostrade e anche gli Autogrill sono carissimi, ma hanno affrontato il problema alla radice e non ci si trova una goccia d'alcol.
I prati sono sempre verdi, le mucche sono molte di meno e il formaggio costa più del Parmigiano stagionato tre anni.
Gli Svizzeri non hanno ancora deciso se essere Europei e cosa fare da grandi.
Alla fine questo paese sembra pervaso da una crisi d'identità che lo tiene sospeso fra un passato glorioso e un futuro scomodo.
Dopo il traforo del Gottardo scorrono i nomi dei miei primi viaggi fra un acquazzone e un piovasco.
Ertsfeld, Lucerna, Ergiswil, Goschenen, lo svincolo per Interlaken e quello per Zurich.
Treni rossi, un tempo verdi, sfrecciano o sfilano con lunghe teorie di carri merci mentre mi avvicino a Basel.
Alla fine la frontiera della Germania è quasi un sospiro di sollievo. Si torna in Europa, non mi guardano più male gli euro e i suoi centesimi ma in ogni caso non è più la mia Svizzera.

15 dicembre 2012

Ne ho visti di tutti i colori - 2 oppure Vita d' ospedale – 6.

Non tutti i bambini sono dello stesso colore, l'abbiamo visto, e il cromatismo pediatrico potrebbe diventare una scienza, o almeno una specializzazione della pediatria.
Per le mamme che arrivano in Pronto Soccorso i colori cambiano in base al tempo, al luogo, alle parti del corpo, al caso e alla necessità.
Gli occhi, colore dell'iride a parte, sono spesso rossi, qualche volta bluastri, raramente gialli, rarissimamente viola e mai verdi.
Le orecchie sono in genere rosse, specie dopo mangiato, ma non è detto che siano bianche prima di mangiare, non sono comunque mai verdi né gialle.
Il viso ha tante sfumature: rosso, verde, giallo, bianco, viola, quasi mai blu.
Il resto del corpo non fa testo.
Le estremità sono spesso rosse, e in tal caso e altrettanto spesso calde; a volte sono bianche, e usualmente fredde.
Quando sono blu la temperatura è variabile.
L'ombelico non cambia generalmente colore e la lingua può essere rossa o bianca, le varianti intermedie non interessano.
Fra i genitali il posto d'onore spetta al pisello che può essere rosso, blu e anche viola, mai giallo né verde.
E cambia di dimensioni, a seconda dell'abilità manuale del piccolo.
La sua cuginetta è chiamata in causa quando diventa rossa e qualche volta, se la bambina insiste, arriva a essere viola.
Mai bianca né gialla né blu, non cambia dimensioni, ma ha un'infinità di nomi: cipollina, farfallina, patatina, sederino davanti, giùinbasso tuttoattaccato e fiorellino.

14 dicembre 2012

Ne ho visti di tutti i colori - 1 oppure Vita d'ospedale - 5.

Per circa trent'anni ho visitato i bambini che arrivavano in Pronto Soccorso.
Adesso ho diradato, lascio questa incombenza ai più giovani, ma qualche volta mi chiedono consiglio, qualche volta li scavalco e mi guardo qualche bimbo ancora.
Ovviamente ho visto di tutto, bimbi belli e bimbi brutti, bimbi malati, ma soprattutto bimbi sani.
E un po' di tutti i colori.
Agata e i foruncolini
Le gente pensa che ci siano i bimbi bianchi, i bimbi neri africani e i bimbi gialli, asiatici, con qualche overlaps come gli Indiani, i Pakistani e i nativi americani.
Ma, soprattutto fra i bianchi, a sentire le mamme, il colore è variabile.
Spesso la mamma è arrivata in Pronto Soccorso perchè vedeva il figlio di colore cambiato – Dottore, da un po' lo vedo bianco! - Dottore, mi sembra un po' rosso! - Dottore, lo guardi non è un po' verde? - Signora, mi sembra un po' giallo... - Ma che dice mi prende in giro? - Facciamo la bilirubina... - No, no, non voglio che mi faccia un prelievo! - Ma se lo vede verde... - No, no, mi sembrava, forse è solo un po' pallido.
Poi ci sono le varianti parziali – Dottore, ha i puntini rossi! - Ma sta bene? - Sì, sì, mangia, però ha i puntini rossi! - Ma non sono macchie? - No sono puntini come capocchie di spillo tutto sulla faccia e sulla pancia – E alle gambe? - No alle gambe no – Vabbè ma cosa le preoccupa? - No niente, ma ha i puntini rossi [ritornello]! - Ricominciamo? - Ma Lei mi prende in giro!
Qualche variante cromatica a dire il vero esiste – Dottore, ha dei puntini rossi ma in mezzo sono come bianchi... - Non sono gialli? - Dove in mezzo? No, sono bianchi, non è la varicella, me l'ha detto mia suocera - Però c'è in giro la varicella... - No, ma non sono vesciche sono puntini rossi e in mezzo sono come bianchi [ritornello] – Ma sta bene? Ha la febbre? - Sì, sta bene, non ha la febbre e mangia tanto, però ha dei puntini rossi ma in mezzo sono come bianchi... - Signora ma a quest'ora di notte non dormite? - No, ero preoccupata!
Ci sono varianti esotiche – Dottore, ha delle macchie rosse, ma dentro sono più chiare, sono un po' rilevate e poi si attenuano, come orticate... - Sarà l'orticaria? - Ah sì? E com'è l'orticaria? - Sono delle macchie rosse, ma dentro sono più chiare, sono un po' rilevate e poi si attenuano, come orticate – E da cosa deriva? Ha mangiato quello che abbiamo mangiato noi: cotechino, salame, un po' di patatine fritte, una bustina di snaks di patate soffiate e paprika, due cioccolatini al latte e cinque kinder.

09 dicembre 2012

Vita d’ospedale – 4



Ieri sera squilla il telefono verso mezzanotte. E’ una delle mie dottoresse.
E’ affranta, si scusa mille volte, non sta bene e dovrebbe lavorare domenica mattina.
Fra una richiesta di perdono e l’altra mi chiede se posso passare dal reparto che non se la sente di arrivare troppo presto.
La rassicuro.
Questa mattina, domenica smagliante tersa e senza una nube ci siamo trovati in 3, ciascuno per portare avanti questa sanità italiana che ci paga due soldi.
Alle dieci è arrivata anche l’ammalata, dopo due ore di automobile.
Non commento nulla, però non è giusto parlare solo di malasanità che fa notizia.
Lo spirito di corpo, il dovere, la passione, la responsabilità non sono concetti platonici, anche nel 2012.
Grazie dottoresse!

29 novembre 2012

Vita d'ospedale - 3



Ho lavorato in molti ospedali. Ho iniziato a Verona e ho finito a Gravedona, ma fra queste due tappe ci sono state Topolinia, Paperopoli, Avarinia e Spreconia.
Uno dei più divertenti è stata Topolinia, ci ho resistito poco.
La città era piccolina, anche se la qualità della vita era molto buona e le serate sempre divertenti.
Eravamo una grande famiglia; ci si dava facilmente del “tu”.
I primari erano per lo più simpatici, salvo qualche lodevole eccezione, e avevano potere di vita e qualche volta di morte.
La direzione amministrativa era affidata a un imbecille che militava nel giusto partito, allora scudocrociato.
La direzione sanitaria toccava invece a un primario di ostetricia, ovviamente dello stesso partito.
Tutto era immutabile dal tempo dei tempi,  la farmacia, la portineria, il pronto soccorso, il parcheggio e la camera mortuaria.
Era più facile far passare un topolino dalla cruna di un ago che apportare una variazione al prontuario terapeutico e in farmacia si preparavano ancora galenici.
La parola d’ordine era “occupare i letti” e quando la morbilità si riduceva, almeno in pediatria, i ricoveri si allungavano.
Per una broncopolmonite si poteva languire in una linda cameretta per 25 giorni, o almeno così ci informano le statistiche del tempo.
In altri reparti i letti venivano occupati anche in modo più ludico, ma statisticamente meno quantificabile.
Il problema di ridurre i costi era relegato alla solita invocazione: comincino al sud (dell’Italia ovviamente)!
C’era già una divisione di Ostetricia a 25 chilometri? Ma noi siamo più bravi e poi la strada è brutta, ci sono i camion della Sangemini.
C’era già una divisione di Pediatria a 25 chilometri? Ma noi siamo più simpatici e un bambino deve  stare vicino ai nonni, alle zia e alle figlie della sorella, ch’era gobba pure quella.
C’era già una divisione di Ortopedia  a 30 chilometri? Ma noi siamo più belli e quelli sanno trattare solo il ginocchio.
E così in questa provincia, grande come un quartiere di Milano, ci stavano quattro/cinque ospedali  con tanti dottori e altrttanti amministrativi.
Qualche anno più tardi fu giocoforza unire le amministrazioni ospedaliere e ci si trovò con un numero esorbitante di medici e di amministrativi.
I medici, soprattutto i molti precari, finirono sistemati tutti: qualcuno perse il lavoro, qualcun’altro lo perdette. L’Accademia della Crusca permetteva e permette tutt’ora entrambe le azioni.
Per gli amministrativi, fra i quali c’erano ben pochi avventizi, non c’era soluzione. Il lago, dove buttarli impietosamente, era lontano e il fiume, ridotto a un rigagnolo puzzolente dallo sfruttamento idroelettrico, non era praticabile.
Si pensò allora di dividere il carrozzone in un’Azienza Sanitalia Locale e un’Azienda Ospedaliera Provinciale.
Così gli amministrativi, circa il doppio dei medici, trovarono giusta collocazione.
Ora Mario Crudelio Monti dice che non ci sono i soldi per garantire un’adeguata assitenza pubblica:  indubitabilemente si tratta di persona ignorante e priva di fantasia. 

27 novembre 2012

Vita d'ospedale - 2

Nei telefilm americani con ci si annoia mai. Nell'ospedale qualcuno muore, ma non si vede.
Quasi nessuno soffre e langue sul letto per malattie croniche, debilitanti o terminali.
Quasi tutti hanno malattie acute e violente, da cui comunque in genere escono abbastanza bene.
Tutte le camere sono luminose e profumate. I cattivi odori li lasciamo alle corsie degli ospedali italiani.
La ambulanze sono grandi, confortevoli, piene di luci lampeggianti come un abete natalizio a Berlino; hanno la sirena a fischio e la suonano anche per andare a bere quel loro caffè annacquato.
Però hanno cattivi gommisti perchè le gomme stridono ad ogni curva anche se rispettano i limiti di velocità.
I medici sono quasi tutti giovani e belli, c'è qualche primario anziano, presbite e con l'aspetto del buon nonno-che-non-capisce-un-cazzo e questa volta tutto il mondo è paese.
Tutti i medici sanno fare interventi chirurgici lunghissimi che reggono encomiabilmente bevendo solo a canna un po' d'acqua gelida, senza mangiare e senza mai fare la pipì.
Ma il valore aggiunto di questi ospedali americani sono le infermiere!
Belle, sempre truccate, non sudano, non mestruano, però ogni tanto aspettano un bebè il cui padre è un giovane medico di Marin County, mentre qua ci va bene se viene da Olgiate Molgora e la sua mamma era di Gonnosfanadiga ma ha sempre votato lega.

26 novembre 2012

Vita d’ospedale – 1



Il medico è giovane, abbronzato, palestrato, pettinato, profumato, pulito, il camice immacolato, il fonendo Littmann negligentemente al collo, tre penne e una matita (temperata) nel taschino.
L’infermiera ha lunghi capelli neri, ma ce n’è in turno anche una uguale con i capelli biondi, bella, truccata, profumata, depilata (forse anche rasata), mai sudata.
Spinge un lettino su cui esanime giace un signore anziano, intubato, con due fleboclisi, un catetere vescicale che non si vede; dal torace spunta un drenaggio collegato a un Bulau.
E’ gravissimo.
Sopra il lenzuolino sta una lastra.
Il dottore corre in senso contrario e incrocia gli occhi dell’infermiera, si salutano, lei sorride, lui no, è accigliato, prende la lastra, la guarda controluce e sentenzia: c’è una lesione del tricipite celiaco nella tasca di Morrison, presto! In sala operatoria!
Credevate fosse un radiologo? invece no!
Entra in sala operatoria, non si lava, non ne ha bisogno, infila i guanti, quelli sì sterili, poi la mascherina, no, quella la infila prima e il cappellino se l’era già calcato sulle orecchie.
Tutti l’aspettano, l’anestesista sorride (ma dove siamo?) e solleva il pollice.
Il dottore afferra il bisturi. Niente klemmer, niente kocker, niente pean, niente di niente, solo il bisturi!
Dopo sei ore l’intervento è terminato.
Il dottore è affaticato, ma non è sudato, toglie il lungo grembiule e infila il camice immacolato.
I medico più giovane, invariabilmente con i capelli rossi, le lentiggini e l’aria del giovane calciatore brianzolo, finisce gli ultimi punti di sutura.
Il paziente dopo molte ore di intervento non passa dalla rianimazione, viene portato in una linda cameretta, profumata e con l’aria condizionata; dopo pochi minuti apre gli occhi e sorride.
Il dottore, il primo, quello bello, entra in camera si congratula, gli dà una pacca sulla pancia, che ovviamente non duole più, e si allontana.
L’infermiera, quella dei lunghi capelli neri, lo aspetta. Insieme escono e salgono su un’automobile scoperta, già decapottata e con le chiavi nel cruscotto, il cambio automatico a lasciare maggior libertà alla mano destra, notoriamente esperta; lei lo accarezza (ma cosa?) con la sinistra.
Entrambi sono puliti, profumati, già rasati, palestrati, mai sudati, l’alito delicato anche dopo ore di sala operatoria. Eh, bella la vita del dottore!
Poi si dileguano e il finale è tutto da immaginare: ristorante? casa di lei? casa di lui?