01 luglio 2013

Scansioni della memoria: il ciliegio



Lo zio Silvio (1915-1921) attorno al 1920
Credo l’abbia piantato il nonno Martino verso il ’30.
Nessuno mi ha chiarito la data, ma se il nonno era partito nel ’36 non poteva essere molto dopo il 1930.
Nella memoria sta con un altro albero immenso, che raggiungeva il secondo piano ed era un pero.
Non so perchè le pere le raccogliesse solo il Guglielmo, forse aveva una pertica speciale per le pere, forse era un diversivo per dimenticarsi, per qulache ora, di riparare le biciclette di un intero paese.
Dalle case e dai cortili vicini questi alberi li ammiravano. Oggi chiederebbero, ed otterrebbero, di abbatterli per l’ombra e per l’invidia.
Il pero se n’era andato presto, a metà degli anni ’50, prima che la millecento grigia potesse riparararsi sotto i suoi rami.
Invece il ciliegio rimaneva a dividere la vigna.
Di quà c’erano i filari che prendevano sole tutto l’anno, di là i filari più freddi, che rimanevano all’ombra da novembre a febbraio, nella brina che durava tutta la mattina e a volte di più.
Il ciliegio fioriva ogni primavera e si vedeva da lontano.
Aveva per compagni e vicini un alberello magro di marasche, stento e macilento, morto giovane, e uno più piccolo di amarene, basso, tozzo, trasudante resina tenace, che produceva amarene amarissime e precoci.
Quando le ciliegie maturavano si saliva, dopo la scala a pioli, di ramo in ramo.
Strano che nessuno temesse che cadessi, e in effetti non è mai successo.
Superando terrore e vertigini, e lo confesso solo ora, arrampicavo a dieci metri da terra.
I frutti maturi, duri e cupi, mi annoiavano presto.
Dall’alto però di vedeva il Lago.
Quel Lago che ho sempre proonuciato con la maiuscola, qul Lago da dove venivamo.  Non era il Lago di Como dell’atlante nè il Lario del libro di geografia di mia sorella; era il Lago di Lecco del papà, del nonno, del bisnonno, della nonna salita bambina dalla Toscana alle sue rive e che parlava il vernacolo di Pistoia con la stessa fierezza del dialetto di Pescarenico.
Era il Lago delle motociclette rosse che uscivano a Mandello e percorrevano le strade dell’Europa che rinasceva dalle ceneri.
Il ciliegio c’è ancora.
Non c’è più nessun’altro a fargli compagnia.
Qualche stentata pianta di pesche e di mele dal prato sconnesso che era stato la vigna del nonno Martino.
Qualche pianta è di quà, dove c’ erano i filari che prendevano sole tutto l’anno, qualche pianta è di là, dove c’erano i filari più freddi, che rimanevano all’ombra da novembre a febbraio, nella brina che durava tutta la mattina e a volte di più.
Il ciliegio fiorisce ogni primavera.
Nessuno può raccogliere le ciliegie cupe, turgide, alte, all’altezza di un albero che non vuole morire sfidando la legge della natura.
Ora sono andati tutti e il ciliegio è mio; per anni mi sono chiesto per chi fiorisse il mio ciliegio.
Per qualche donna che prometteva di vivere sotto la sua ombra e con me.
Ho smesso di chiedermelo e anche quest’anno non ci sono stato quando è fiorito.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bello ma di una malinconia invernale come .......dove c'erano i filari più freddi, che rimanevano all'ombra da novembre.........