05 luglio 2015

Kalmine


Nonostante sia in vacanza il cellulare squilla incessante; fortunatamente non c'è molto campo, ho trovato un angolo di Sicilia incantevole e un po' dimenticato, in fondo alla valle del Belice.
Ma tant'è: e-mail, sms, whatsapp mi raggiungono ogni giorno per consigli, suggerimenti e pareri, stimolati anche da fotografie di sfoghi, eritemi, macule, papule e vescicole.
Non sarei sincero se dicessi che mi disturbano.
Vigneti nella valle del Belice
Ho quasi sempre amato il mio lavoro e sul lavoro i problemi più gravi me li hanno sempre procurati i Colleghi, raramente i bambini. I pazienti hanno bisogno del medico, ma ogni medico ha bisogno dei suoi pazienti e della loro fiducia.
Mai come in questi anni la fiducia nei medici è stata così bassa.
Fino agli anni '40 del secolo scorso la principale differenza fra un medico di campagna e uno stregone era il completo di lino invece della zagaglia.
Per i dolori di ogni giorno, per la cefalea, l'emicrania, la gastralgia, il mal di denti e d'orecchi il medico non veniva disturbato. Per le malattie esantematiche bastava e avanzava l'ostetrica. Il dottore faceva la sua comparsa dal diabete e dall'ipertensione in su e quindi per la difterite, per la malaria, per sentenziare un male incurabile o uno innominabile.
Claude Bernard e il suo metodo deduttivo raramente uscivano dalle aule universitarie per ispirare terapie e interventi; i libri di clinica medica e chirurgica, una volta laureato il proprietario, iniziavano il loro polveroso calvario da uno scaffale a un armadio per finire mestamente al macero dopo qualche decennio di onorata professione.
Eppure la fiducia nel signor dottore in provincia era quasi assoluta, e le eccezioni si riferivano a qualche professionista noto per le mani lunghe a tastare morbidezze o a sollevare gonne.
Nel quartiere dove ho trascorso buona parte della mia infanzia, “Masonacce” di Regoledo di Cosio, mia zia teneva bottega, privativa, tabaccheria e scuola di umanità.
C'era chi entrava per qualche sigaretta sfusa, due/tre toscani o un pacchetto di “Tabacco di prima” (qualità) chiamato anche Trinciato Forte che una volta acceso gareggiava con le spuntature di toscano, o “Tabacco di seconda” e con gli zampironi per appestare l'aria circostante.
C'era qualche anziana che arrivava in bottega ogni mattina, si apriva alle 6, per un'oncia di caffè e mezz'oncia di zucchero, ignara del sistema metrico-decimale che da qualche decennio misurava farine e granaglie in etti e chili.
Poi c'era chi, afflitto dal mal di denti, del mal di testa, dal mal di stomaco chiedeva due o tre “Calmin”.
Tirà giù 'n calmin” era il primo soccorso per ogni piccolo male quotidiano; poi, in assenza di risposta terapeutica si poteva prendere in considerazione l'idea di andare all'ambulatorio o, in casi estremi, di chiamare il dottore a casa.
Kalmine era il nome completo di una cialda o cachet, in dialetto “cascè”, con la e aperta, che conteneva un'associazione di analgesici e analettici.
Era prodotto dall'azienda Achille Brioschi di Milano su licenza francese e conteneva fra l'altro amidopirina, fenacetina e caffeina.
Stranamente era in vendita oltre che nelle farmacie, anche nelle tabaccherie, dove era entrata verosimilmente a rimorchio del Chinino di Stato.
L'amidopirina è un antinfiammatorio e un antipiretico, la fenacetina è un analgesico potente, può essere assunto anche da chi soffre di favismo e non è gastrolesivo, quindi funzionava anche per le gastralgie, che magari nascondevano una bell'ulcera peptica.
L'associazione era geniale, ma la fenacetina alla lunga risultava nefrotossica.
La salvezza dello stomaco si pagava alla lunga con l'insufficienza renale.
Due conti fra rapporto costo/beneficio, anche in epoca di approccio euristico alla salute, portarono alla scomparsa del Kalmine.

1 commento:

walter ha detto...

è un piacere leggere i tuoi racconti, mi sembra un romanzo
buon lavoro dottore