02 luglio 2017

Un ritorno - 1

Salgo a Montelupone-Porto Potenza Picena; prima tappa Ancona.
La stazioncina di Montelupone è spartana ma pulita; dopo l’abbandono di lunghi anni, dopo il pesante ridimensionamento del personale, per lunghi anni le stazioni ferroviarie italiane erano diventate discariche polverose e luridi ripari per un’umanità minore senza casa, senza fantasia e senz’anima ma ben fornita di bombolette spray.
Da qualche tempo qualche idea di riciclo è balenata agli amministratori locali e una pro-loco o un ufficio turistico o un caffè hanno tolto qualche sperduta stazione di provincia al degrado.
Ma tant’è, non c’è tempo per tante riflessioni e salgo deciso.
Il treno è moderno, colorato, condizionato.
E pieno.
Trovo posto su una poltroncina pieghevole vicino alla porta automatica e pneumatica.
I compagni di viaggio che riesco a vedere e quelli che scendono o salgono ad ogni stazione non sono italiani. Arabi, neri, levantini o balcanici
Quasi tutti si immergono nello smartphone a costruire una solida barriera verso chi e verso quanto li circonda.
Le colline marchigiane sfilano indifferenti e nessuno alza lo sguardo neppure sul santuario di Loreto che domina il mare prima del Conero.
A tratti una suoneria supera lo sferragliare discreto ed esplodono brevi conversazioni in lingue sconosciute.
Ancona si avvicina e una coppia di orientali, forse cinesi, forse vietnamiti, arranca con due trolley smisurati sino al vestibolo.
Lui si siede di fianco a me; la signora su un altro sedile piegevole ancora più vicino alla porta.
Cicaleccio in lingua orientale piena di vocali; lei petulante, lui più composto.
Mi chiede più che altro a gesti se Ancona sia vicina. Annuisco rassicurante poi devo faticare a convincerli a non scendere alla sperduta fermata di Ancona Stadio, poco più di un casello.
Con poca convinzione si fidano ma si aprono finalmente a un sorriso solo quando entriamo trionfanti ad Ancona Centrale.
Mi ringraziano più volte e scompaiono trascinando i loro jumbo-trolley pesantissimi.
Ho qualche minuto per la corrispondenza per Bologna e ne approfitto per fotografare qualche Frecciarossa e Frecciabianca che salgono e scendono incessanti la dorsale Adriatica con i loro posti numerati che non sono riuscito a prenotare.
Il treno Regionale Veloce sonnecchia al binario 4.
Vetture a due piani, sedili stretti e scomodi, credevo fosse un locale per qualche strana cittadina dell’entroterra, invece è proprio il Regionale Veloce, ed è bello affollato.
Ero abituato a distinguere i treni in “diretti” e “accelerati”, poi questi ultimi hanno cominciato a chiamarli più correttamente “locali” e la differenza è che fermavano a tutte le stazioni mentre i “diretti” ne saltavano una buona metà.
Poi c’erano i “rapidi” che univano Milano a Roma e Firenze e Bologna, ma fra Torino e Milano e Genova c’erano ancora solo treni diretti o “direttissimi” che poi erano i rapidi dei poveri.
Arranco al piano rialzato alla ricerca di un posto finestrino orientato nel senso di marcia, una mia fissazione, ma non ne trovo e ripiego su uno opposto al senso di marcia, di fronte a una giovane signora raggomitolata attorno al suo smartphone.
Il senso del viaggio per me è più importante della lunghezza del tragitto.
Il posto al finestrino sul treno, sulla corriera o il seat window dell'aereo sono irrinunciabili; la loro mancanza è quasi un disagio fisico.
Prigioniero dei miei retaggi infantili amo il viaggio in modo puerile.
Per me è importante il finestrino, il paesaggio che scorre con il suo fascino dei luoghi conosciuti o con la scoperta, anche quella infantile, e la meraviglia dei luoghi sconosciuti che attraverso.
Ricordo con sgomento la noia delle lunghe ore di volo da una parte all’altra dell’oceano mentre è vivo il ricordo struggente di un viaggio su un trenino a scartamento ridotto, sferragliante e ansimante da Bari a Matera.
Oppure di una lentissima “littorina” lungo la dorsale sarda in salita sino a Bonorva e poi in discesa stridente ad ogni curva lungo la valle del Tirso sino a respirare il paesaggio quieto del Campidano dopo Oristano con l’aria calda e immobile.
E umanità dolente e silenziosa, o chiassosa di studenti pendolari.
Con cartocci di pane e bottiglie di vino scuro o sacchetti di patatine unte e cocacola a canna.

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