06 gennaio 2013

Scrivevamo alla marinara? No, all’italiana.

Dalla rivista "Alpes", gennaio 2000

Questo incidente ferroviario è avvenuto nel 1960; lo ricordo bene; ero un bambino. Fra i viaggiatori di quel treno c’erano due o tre persone che conoscevo, che incontravo per la strada e che mi salutavano.
L’evento per la prima volta entrava nella mia vita. Non come ora, che la televisione, se glielo permettiamo, ci porta in ogni casa ogni giorno la guerra, la violenza, il sesso e la morte.
A casa mia la televisione non era ancora arrivata. Si leggeva il Corriere e si ascoltava Radiosera, in silenzio perché il papà voleva ascoltare e a noi ragazzi veniva da ridere proprio in quei pochi minuti.
Allora le immagini te le creavi nella mente e vedevi il locomotore marrone accartocciato, le vetture rovesciate, i morti pallidi e immobili; immaginavi il suono delle sirene ed erano le sirene dei pompieri di Morbegno moltiplicate tante volte.
Poi il giorno dopo arrivavano le immagini vere sul Corriere della Sera, ma sfumate, scure, sfocate, censurate. Le fotografie dei cadaveri erano riservate a morti lontani e irriconoscibili: allora si moriva in Algeria e in Congo Belga.
Le cronache dell’incidente, rilette a distanza di quarant’anni sono quasi pittoresche e molto interessanti sul piano sociologico, ma povere di notizie e prive di particolari tecnici precisi.
Ho avuto sotto mano alcuni numeri de “Il Cittadino”, quotidiano cattolico di Monza.
Nella retorica del tempo vengono menzionate tutte le autorità che si sono precipitate sul luogo del disastro; quelle dimenticate il primo giorno vengono ricordate fortunatamente il giorno dopo; è il caso, ad esempio, del Corpo dei Vigili Urbani, che il 7 gennaio era stato dimenticato, ed è comparso il giorno 8 in terza pagina.
I funerali vengono descritti con dovizia di particolari, e le fotografie si soffermano ancora una volta sulle Autorità presenti.
Oggi si cercherebbe sin dal primo minuto un responsabile oppure, per guadagnare tempo e tiratura, almeno un capro espiatorio da trovare anche con scelta randomizzata, e tanto peggio per lui, la sua reputazione, la sua famiglia, i suoi affetti.
Che dietro questa catastrofe ci fosse errore umano, negligenza o imperizia, balza agli occhi smaliziati di chi legge oggi. Allora invece no.
Il primo macchinista, che ancora si chiamava “Maestro”, come ai tempi della trazione a vapore, morì nell’incidente. L’assistente rimase ferito lievemente.
Pare che gli accordi prima della partenza fossero che il Maestro avrebbe condotto il treno sino a Lecco, mentre l’assistente avrebbe preso i comandi dalla città lariana fino a Milano.
Cosa avvenne nella cabina di guida del locomotore 626.215? Forse non lo sapremo mai. L’assistente macchinista sostenne che alla guida del treno c’era il Maestro. Il vecchio macchinista però venne trovato schiacciato fra i rottami nella parte destra della cabina, che rimase distrutta nell’incidente. Ma sulle locomotive del tipo 626 a destra non ci sono né i comandi del freno, né quelli del reostato. Vicino ai comandi, venne trovato l’assistente.
Il capotreno e alcuni viaggiatori hanno testimoniato che i petardi regolamentari esplosero e l’inchiesta dimostrò che i segnali erano attivi, ma nessuno ricorda la scarica d’aria compressa che annuncia l’attivazione del freno.
Forse il vecchio macchinista si era appisolato, passando dal sonno alla morte e l’assistente si perse nella nebbia mentre tentava di recuperare il ritardo.
Alla fine di numerosi processi, l’ultimo dei quali nel 1967 tutti vennero assolti, in secondo o terzo grado, perchè eravamo già in Italia, anche nel 1960.

4 commenti:

Rara13 ha detto...

Sempre più complimenti, fai vivere quello che scrivi

ecografista ha detto...

Grazie Rara13, ma ci conosciamo?

Rara13 ha detto...

Qualche volta ci incrociamo

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