24 giugno 2013

Scansioni della memoria - 5

Il passaggio a Verona rispecchiava altre riflessioni.
In buona sostanza ero stufo di fare lo studente. Frequentare il policlinico, poi studiare in camere d’affitto, poi tirar notte nelle osterie non faceva più per me.
Ogni caffè era pagato con i quattrini di mio padre; il pensiero di mio padre che lavorava ogni giorno mentre sostanzialmente io facevo una vita disimpegnata diventava ogni giorno più insopportabile.
In ospedale mi chiamavano “dottore” solo perchè portavo un camice bianco ed era frustrante.
Non sapevo ancora che sarebbe stato un circolo vizioso.
Da studente aspiravo ad essere laureato. Da laureato avrei aspirato ad essere tirocinante. Da tirocinante avrei aspirato ad essere specializzando; da specializzando mi sarei sentito frustrato a non essere assistente; dopo tanti anni da assistente avrei cominciato a pensare di avere la maturità per diventare aiuto ospedaliero.
E ho sempre pensato che questo fosse il coronamento dei miei sogni.
Ma torniamo a Verona.
L’impatto fu penoso.
La città a metà degli anni 70 del secolo scorso non era abituata agli studenti universitari e li sopportava.
Il policlinico era fiammante ma gli uffici dell’università erano ospitati in vecchi palazzi in riva all’Adige vicino al cimitero.
La mensa universitaria era in costruzione e si doveva ripiegare su quella municipale dove mangiavano “i poveri” e qualche barbone che riusciva a racimolare gli spiccioli necessari a permettersi un’alternativa alla zuppa del Convento dei Francescani di Via Fincato.
Avevo rimediato una camera in affitto da zia e nipote, nubili, in un brutto quartiere, Borgo Venezia.
Le signorine avevano passato l’età sinodale e mi offrivano ogni sera vino rosso della Valpolicella. Mi invitavano alle ricorrenze famigliari sperando in un mio fidanzamento con improbabili nipotine, ferite dalla cellulite sin dall’adolescenza e visibilmente destinate a seguire il loro destino.
Ma il mio imperativo categorico era arrivare alla laurea, possibilmente senza andare fuori corso, e mi ero impegnato senza compromessi.
C’era una novità rispetto a Parma: avevo l’automobile, una fiammante Autobianchi A 112 blu notte.
A Verona giravano brutte compagnie e molta eroina.
L’automobile mi venne forzata tre volte; ci rimediai il furto di due autoradio, un paio di scarponi da sci e quattro contentori per diapositive, che verosimilmente avevano acceso la fantasia dei balordi che giravano nel quartiere.
In un paio di occasioni avevo rischiato di essere trascinato in qualche rissa che scoppiava davanti alle pizzerie lungo l’Adige, ma ero riuscito a fuggirne poco onorevolmente di fronte alle provocazioni.
Io frequentavo assiduamente gli ospedali.
I principali ospedali di Verona erano il Policlinico di Borgo Roma e l’Ospedale Maggiore di Borgo Trento.
Completavano il gruppo l’Ospedale Psichiatrico di Marzana e quello pneumologico del Chievo.
In Policlinico ero guardato un po’ con il sospetto dell’immigrato, come succede a chi cambia Ateneo, e avevo rimediato un cortese rifiuto alla domanda di frequentare la divisione di Ematologia.
Stesso risultato in Anatomia Patologia, roccaforte del PCI, dove mi avevano fatto capire senza mezzi termini che non avrei avuto alcuna chance senza latessera”.
Ero alla costante ricerca del Maestro e l’avevo trovato nei professori De Sandre e Vettore della Patologia Medica, ma i loro interni avevano pensato bene di tenere alla lontana qualunque studente volesse entrare in concorrenza.
Ero stato accettato, e apprezzato, per il tirocinio obbligatorio nella Chirurgia Prima dellOspedale di Borgo Trento, poi avevo iniziato a frequentare quellAnatomia Patologica, e infine ero rientrato nel Policlinico di Borgo Roma per la tesi finale in Chirurgia Pediatrica.
Dopo la laurea ero approdato in Clinica Pediatrica e lì si era compiuto il mio destino.
In un anno mi ero integrato molto bene. Il mio merito era la capacità di sviluppare le fotografie e quindi di approntare le slides per i congressi in poche ore.
Alla luce di questa mia dote ero riuscito ad entrare nella scuola si specializzazione al primo tentativo.
Avevo un’idea molto confusa della professione e della ricerca. Quello che mi era chiaro era il mio destino ospedaliero.
Non amavo il lavoro del medico condotto, pur comprendendone il fascino e i vantaggi.
La verità era che navigavo in un’ignoranza abissale.
L’ingresso in Clinica Pediatrica era stata un po’ una rinascita e avevo iniziato seriamente il cammino che percorro ancora oggi, arrivato ben oltre quanto sperassi, quanto credessi e quanto meritassi.
Sul fronte personale stendiamo un velo pietoso. Erano arrivati due figli belli e simpatici, e lo sono tuttora, ma con una donna che non mi amava e che non mi ha mai amato.
Ma io so amare: il prossimo, il lavoro e i figli. Anche senza esserne ricambiato.
E fino al 1985 tutto rimase quasi bello, senza grandi responsabilità, ma senza guerre e neppure nemici.
(fine per ora, poi si vedrà)

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