25 luglio 2012

I corrieri


Il lavoro iniziava presto in stazione, verso le cinque del mattino, mi sembra.
Il primo “accelerato” scendeva da Sondrio a Milano fermandosi ad ogni stazione, per entrare trionfalmente in Stazione Centrale dopo quattro ore.
Trasportava un’umanità rassegnata e triste se misurata col metro attuale, ma tutti più o meno si conoscevano e non c’era da preoccuparsi del posto a sedere.
Gli studenti da Bellano scendevano a Lecco; da Dervio in su, cioè a nord, salivano invece a Sondrio.
Fumavano di prima mattina ed estraevano dalla cartella sudice carte con cui ingannare la mezzora di viaggio.
Ad ogni fermata saliva un gruppetto che faceva a sé.
Dalla Valtellina invece scendevano a Milano i “Corrieri”, un mestiere dimenticato, un lavoro nero tollerato e, come il contrabbando, un secondo lavoro per chi non era ancora stato raggiunto dal boom economico della metà degli anni ’50.
Questa gente riempiva all’inverosimile borse e sporte di burro, di uova, di formaggio e di verdura.
Una volta a Milano iniziava il suo giro di affezionati clienti milanesi, ansiosi di acquistare con benevolenza e  paternalismo i prodotti “nostrani” della Valtellina.
Naturalmente a volte il troppo paternalismo veniva ricambiato con pari moneta e sotto a mezzo centimetro di burro stava un economico panetto di margarina.
Astuzia e ingegno acquisiti negli anni bui del mercato nero di dieci anni prima rivivevano nei corrieri privi di scrupoli.
Ma la maggior parte era brava gente che si industriava per pagare gli studi dei futuri geometri o ragionieri della Valtellina per i quali sognavano un futuro radioso. Futuro radioso immaginato in qualcuna delle società idroelettriche che spedivano al capoluogo l’energia per le sue industrie.
E anche il 5 gennaio del 1960 erano saliti su questo accelerato che scendeva a Milano.
Dopo le ultime fermate in Brianza il treno correva a circa 80 all’ora verso Monza.
Era la velocità massima consentita dal vecchio locomotore costruito all’inizio degli anni ’30.
Ma sul viadotto di Viale Libertà, poco prima di Monza, c’erano dei lavori e la velocità era limitata a 10 km all’ora.
Nessuno saprà se fu un colpo di sonno del macchinista, un errore umano del suo secondo, oppure la nebbia tradì chi conduceva, fatto si è che il convoglio che aveva attraversato lentamente le decine di gallerie sulla vecchia litoranea orientale arrivò sul cavalcavia a una velocità impossibile.
Nel deragliamento che ne seguì morirono 17 persone e altre 120 rimasero ferite.
Una tragedia, presto dimenticata, che si abbattè su un’umanità dolente che nessuno ancora chiamava pendolari.

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